Roma, 1 mar – Nell’affrontare lo studio dell’antica religiosità romana, non può esser messo in secondo piano l’approfondimento circa quello che furono le prescrizioni calendariali, che caratterizzano gran parte della sacralità che fu proprio della Roma pagana. Il Calendario, come attraverso le modifiche apportate da Numa Pompilio e poi da Giulio Cesare (calendario giuliano), è un preciso sistema cultuale che guidava l’uomo romano per le celebrazioni rituali per l’intero arco annuale, un sistema articolato di festività e di riferimenti religiosi che rappresentava la base del rapporto del cittadino col Divino, nella sua espressione prevalentemente pubblica, ma anche privata. Alle date indicate nel calendario, infatti, tanto i sacerdoti, i collegi pontificali, quanto il Pater Familias, quale sacerdos del nucleo fondante la civitas, erano tenuti a rispettare ben precise prescrizioni cultuali. In tale ambito, però, quasi tutta l’ermeneutica concernente si è sempre limitata ad una constatazione fattuale di natura cultuale e religiosa, assumendo dogmaticamente le indicazioni espresse, non ponendosi un più profondo fine d’indagine, cioè quello di voler comprendere se tutto il sistema calendariale romano, in realtà, avesse voluto esprimere una dimensione ben più profonda di quella prettamente religiosa. Una domanda la cui risposta non può che risultare affermativa, sostenendo la tesi dell’esistenza di una dimensione sapienziale che avesse profondamente sostanziato una precisa concatenazione rituale, non posta casualmente, ma avente un preciso ed introspettivo fine palingenetico.
Il calendario romano era un preciso orologio trasmutatorio in cui festività, purificazioni, ritualità e divieti assumevano, in un’ottica di natura ermetica, un carettere funzionale in vista di un preciso processo trasfigurante dell’orante. Quanto ha felicemente intuito Giandomenico Casalino nel suo “Il nome segreto di Roma“, circa la corrispondenza tra Nume – Astro – Metallo, con l’utilizzo dell’alchimica spirale di Stefanio, senza entrare in particolari specificatamente tecnici, può servire a comprendere quanto l’espressione del sacro e della storia dell’Urbe siano stati simultaneamente indicatori di realizzazioni simultanee su piani diversamente gerarchici. In questa direzione si sono mossi i lavori di valenti studiosi come Paolo Galiano, come LMA Viola, ma anche di un accademico come Dario Sabbattucci. Se primordialmente il rito del 9 Gennaio degli Agonalia, sotto la tutela di Giano con l’uccisione di un capro nero, rappresentava allegoricamente l’apertura sacrificale dell’anno, in cui il corpo del Cosmo e dell’Uomo veniva smembrato per essere poi sublimato e ricomposto, i vari passaggi per le festività in onore di Marte, di Venere, di Minerva, di Apollo, di Giove e poi di Cerere e Saturno possono essere riferiti a precisi processi di maturazione interiore. E’ plausibile che tali riferimenti siano associabili a quell’interpretazione iniziatica che va assunta sia dalle opere virgiliane, in cui la lavorazione della terra, la semina, il mito di Saturno – i cui misteri erano conservati dalla famiglia di Simmaco – fossero elementi simbolici di una trasfigurazione orfico – pitagorica, così come si evince chiaramente dal VI canto dell’Eneide, ma anche dalla ritualità agraria legata ai Fratelli Arvali.
Ciò si evince dalla diretta corrispondenza tra Ritmi Cosmici e Ritmi Umani e dalla considerazione – così come espressa anche da Evola nel suo saggio dedicato a Giuliano Imperatore in Ricognizioni – che le potenze numeniche esotericamente non siano delle divinità teisticamente e fideisticamente concepite, ma siano dei precisi stati di coscienza e di elevazione spirituale, così come espresso anche da Carl Koch nel suo “Giove Romano” (Edizioni Rari Nantes). Sempre Evola nella Tradizione Ermetica rapportava le diverse fasi dell’opera al succedersi delle stagioni ed alle loro corrispondenze numeniche ed astrali. Il Dio, la festa, il rito, pertanto, assunti a simboli di trasfigurazione interiore: “Gli Avi tuoi assunsero ciascun fattore sottile della Natura, lo personificarono, gli diedero un Nome, immaginarono una figura simbolica per rappresentarlo. E’ stato argutamente osservato che chi costruisce (o rianima) la figura di un Dio procede analogamente a colui che disegna uno stemma (…)Basta un minimo “invito”, un minimo stimolo, perché il meccanismo scatti e l’immagine si ricomponga, sia pure su un piano semplicemente psichico. Così della limatura di ferro, disperso su un piano, si raccoglie intorno ad un magnete che venga posto in mezzo. Se il magnete è forte esso attiverà i granelli anche se essi sono pochi e molti distanti; viceversa se il magnete non è molto forte solo una minima parte di materiale potrà essere attratto” (La Via Romana agli Dei, edizione privata).
Pertanto, come va letto il calendario romano? Esiste solo la dimensione religiosa, oppure – tentando di decifrare l’insegnamento celato nei Fasti di Ovidio, al quale fu imposto di interrompere la stesura della sua opera e di divulgare lo stesso motivo del divieto – è riscontrabile in esso anche una prospettiva iniziatica? Non solo alcuni studiosi moderni, non solo Ovidio, ma anche nel primo libro dei Saturnalia di Macrobio è possibile ritrovare una risposta al quanto eloquente. Nella gioranta di oggi, Kalendis Martiis, in cui al Nume Marziale si accompagna la celebrazione dei Matronalia, festa della dea Iuno Lucina, il potere d’attivazione eroico ed “arietino” si diffonde nel mondo per il rinnovamento della Natura e dell’Uomo, in una saggia combinazione di Sole e Luna, di Maschile e Femminile, essendo le trasformazioni solamente fattibili nel segno di un magistrale equilibrio. Per fare alcuni esempi, di un’analisi che comporterebbe diversi volumi e non un sintetico articolo, faremo riferimento ad alcuni simbolismi opposti, ma organicamente inseriti in un sistema sacrale magistralmente inteso. Il 19 Marzo di seguito, nel giorno in cui il collegio dei Salii procedeva alla lustrazione delle armi, iniziavano i Sacra a Minerva, che sancivano la trasmutazione dell’elemento ferale di Marte in attivazione intellettiva, non più secondo natura ma secondo Sapienza. La Sapienza Palladia è Fortezza Divina, è Ariete Sacro che è lì per risorgere a breve, con il Sole rinnovato. Qui nasceva Minerva (Ovidio, Fasti, III, 812), qui ella si accompagnava con Apollo e Mercurio, con l’Arte ed il suo tramite di realizzazione, qui ella diviene potere cangiante, per chi ne colga la funzione anagogica e non la sterile figura di idolo. Pallade, è vergine guerriera, è sommità dell’Etere, è intelligenza di Giove, intelligenza demiurgica ordinatrice del cosmo, è “prior igni” cioè anteriore alla generazione del primo dei quattro elementi fisici, il fuoco, alla sua Sapienza è consacrata l’Opera.
Sinteticamente, avendo accennato all’espansione energetica primaverile, possiamo far riferimento alla fase autunnale, in cui la discesa iniziata con Cerere culminava nel riferimento diretto alla Dea Angerona, festeggiata dodici giorni prima delle calende di Gennaio (19 Dicembre), alla quale veniva dedicato un rito sacro nel tempio di Volupia (Macrobio, Saturnali, 1, 10, 7-8): ella era per Plinio (H. 28, 2, 4) rappresentata con la bocca fasciata (ore obligato) e con dito sulle labbra. Angerona sembrava essere la depositaria del Nome Segreto di Roma, cioè quella potenza metafisica e tutelare della Città Eterna, che solo nell’immanifestato poteva e può ritrovare adeguata espressione, quella forza luminosa che si libera solo nel buio dell’inverno, nella profondità del proprio animo, quando la caducità sensibile ed umana è stata eroicamente trasmutata, che dona ad un popolo, ad un Uomo la forza eterna di Giove, la sua Aeternitas. E’ l’essere che si rinchiude in sé, come per riunire e potenziare tutte le proprie energie, come un Heroe che si concentra prima del colpo fatidico, come un Adepto prima dell’azione sacrificale. Questo il senso della Dea Angerona, questo il segreto del Silenzio che porta con sé: la facoltà di chiudersi al mondo, alla terra, per riaprirsi, rinascere al Sole, al Cielo Uranico. Il significato di una prospettiva sapienziale, infine, si configura, per quanto esposto, essere la possibilità di ritrovare il centro animico, in cui sono celati l’asse e la fiamma, riviverli in sè, covare la caloricità che dissolve il plumbeo Saturno, per macerare la fantasia, l’enfasi, l’emozionalità: l’anima pura è anima secca, come ci ricorda sapienzialmente Eraclito e ritualmente è il centro pubblico ed allo stesso tempo arcano dell’Urbe:”Risvegliata dal sonno, scongelata, vitalizzata dal fuoco fecondatore, Vesta torna alla vita, genera ininterrottamente, operando in tutte le direzioni, partendo dal medesimo centro moltiplicatore” (da Il Fuoco Sacro: Giano e Vesta – Arcana Urbis, Marco Baistrocchi).
Luca Valentini