Roma, 18 lug – Se c’è un aspetto positivo del governo guidato da Giorgia Meloni, in un quadro generale che nel primo anno è stato abbastanza terrificante, è quello della vivacità diplomatica. Il premier ha sempre curato con molta attenzione i rapporti bilaterali, specialmente sul Mediterraneo e in Asia. Se il suo esecutivo raggiungerà progressivamente risultati migliori proseguendo nella legislatura, molto sarà dovuto a questo approccio senza dubbio costruttivo, pur in un contesto generale ancora decisamente deludente (ma, questo va detto per onestà, in via di miglioramento da qualche mese). Così la missione in Libia del premier può essere letta, ma anche inquadrata in un limite che non riguarda solo l’esecutivo di centrodestra ma, in generale, tutti quelli che si sono succeduti negli ultimi vent’anni (l’unica eccezione, probabilmente, è quello strano esperimento rappresentato dal governo gialloverde, durato però appena un anno).
Meloni in Libia: cosa ha detto il premier
Tante giuste osservazioni, per carità. Non può mancare il classico “combattiamo insieme la tratta di essere umani”, ma anche il giusto e sacrosanto “diritto a non emigrare”. Come è valido ribadire la necessità di cooperare con l’Africa, non per solo per questioni etiche ma perché – e di questo dovrebbero essersene resi conto tutti – perché abbiamo un interesse in comune: il loro, di mantenere risorse e di crescere, il nostro, di non essere invasi e distruggere la nostra identità quanto il nostro tessuto socio-economico.
Ovviamente, è giusto incentrare la politica italiana sul Mare Nostrum: “Come penso tutti capiscano in questo momento per il governo italiano il Mediterraneo è una priorità. E non può esserci Mediterraneo senza Italia e Libia insieme. Questo è anche il motivo per cui in questi due anni abbiamo migliorato molto la nostra collaborazione”. Insomma, sul fatto che “ogni crisi nasconda un’opportunità”, siamo assolutamente concordi. Meloni in Libia sicuramente mostra ancora una volta un profilo che rappresenta forse il suo lato migliore di capo del governo.
La vivacità diplomatica del presidente del Consiglio
Da quando è in carica il grande attivismo del presidente del Consiglio sul fronte diplomatico è stato immediatamente messo in campo. Con i viaggi in Algeria, allo scopo di trovare accordi giusti per elaborare l’esoscheletro dell’ambiziosissimo Piano Mattei, poi la Tunisia ma anche la stessa Cina, dove il premier è ormai prossimo a recarsi, nonostante la fuoriuscita dalla “Nuova via della Seta”. Questo in un quadro di politica estera estremamente “seduto” se si parla di questioni israeliane e russo-ucraine, che però erano assolutamente prevedibili (purtroppo). Tutto fumo e niente arrosto? I conti si faranno alla fine, ma l’approccio, quanto meno filosoficamente, è positivo. Veniamo alle dolenti note.
Il limite
Dove, proprio “filosoficamente” la questione non gira è sul concetto stesso di controllo dell’immigrazione. Giustissimo insistere sul concetto di “tratta degli esseri umani”, perché di questo si tratta, a prescindere da ogni ragionevole dubbio. Il solito problema riguarda il fatto che, nel 2024 ma anche negli anni passati, si parte da un mantra, una regola insindacabile basata su due principi: il primo è che l’immigrazione di massa non si possa fermare, e il secondo è che gli spostamenti illegali vadano in qualche maniera “compensati” da quelli regolari.
Concetto che lo stesso premier ribadisce quando asserisce che ““negli ultimi anni in Italia non abbiamo potuto consentire di venire a molti migranti legali perché ne avevamo troppi irregolari. Le organizzazioni criminali vogliono decidere loro chi ha diritto di entrare nel nostro Paese e chi no. Il mio governo ha varato decreti flussi per tre anni, ampliando le quote, anche e soprattutto per le nazioni che ci aiutano a combattere contro i trafficanti di esseri umani”.
Non è così, semplicemente perché nessun travaso “regolare” può essere concepito, in qualsivoglia società, anche la più prospera, non solo per le questioni identitarie e culturali ma anche per quelle sociali, dal momento che compito di qualsiasi Stato è – lo ripeteremo fino alla nausea, a costo di essere noiosi – curare anzitutto i propri cittadini e compatrioti, e l’avvento in massa di forestieri complica l’esecuzione di questo diritto insopprimibile di qualsiasi popolo. Meloni in Libia, pur nel contesto di un discorso condisivibile per molti aspetti, non vuole o non riesce ad eludere il mantra summenzionato della “compensazione”. Ritenuta l’unica strada per limitare i danni del solito processo “inevitabile”. Noi ci limitiamo ad essere schietti e a permetterci di osservare: quanto tutto ciò sia inarrestabile provate a chiederlo al governo di Budapest. Magari qualche risposta sapranno darvela.
Stelio Fergola