Roma, 26 apr – L’esplosione del reattore di Chernobyl è stato un evento che ha fatto “epoca”, suo malgrado. Un’icona della disgrazia, ancora oggi viene studiata con macabre fascinazione e curiosità, senza ovviamente poter negare il dovuto rispetto a intere generazione di cittadini sovietici allora (ucraini oggi) perite o ammalatesi in conseguenza delle radiazioni. Era il 26 aprile del 1986 quando un surriscaldamento portò all’incendio del reattore numero 4, con le valutazioni completamente errate del settore scientifico che contribuirono a portare alla disgrazia. Che però fece sorgere i primi dubbi sulla tenuta sovietica anche da un punto di vista tecnologico. L’Urss e il suo impero venivano ancora percepiti come granitici, nonostante la loro crisi sociale ed economica trasparisse da tempo anche ad Ovest. Ma nessuno percepiva alcuna debolezza da un punto di vista militare, tecnologico e scientifico. Il disastro avvenuto a 100 chilometri da Kiev, invece, aprì un fronte di dibattito fino ad allora inesplorato.
Chernobyl, un dramma pop
Anzitutto c’è da considerare quanto Chernobyl abbia rappresentato un “dramma pop” a tutti gli effetti. Per l’appunto, un fatto tragico emblematico di un’epoca, gli anni Ottanta, in cui si manifestavano gli ultimi scampoli della guerra fredda. La natura estremamente “costumistica” di ciò che è seguito a quella disgrazia, nel corso dei decenni, è abbastanza incontestabile. L’apice, sicuramente, è stata la serie televisiva omonima, in cui si raccontano alcuni dettagli interessati soprattutto al quadro politico dell’epoca. Come ben si sa, Mikhail Gorbaciov era da poco più di un anno segretario generale del Pcus, e le sue parole d’ordine – perestrojka e glasnost – erano ben note. La prima riguardava l’economia, la seconda la trasparenza della politica nel raccontare ai cittadini le sue dinamiche, in aperto contrasto con le tradizionali censure sovietiche precedenti. Il caos di Chernobyl fu considerato da molti come una sorta di sconfessione della seconda “promessa”. Dal momento che passarono mesi e in certi casi addirittura prima di conoscere la cronaca precisa dei terribili fatti che riguardarono l’ormai famigerato reattore numero 4. Un approccio che mi permetto di definire ingeneroso: di fronte a eventu così tumultuosi, praticamente qualsiasi sistema politico avrebbe difficoltà a raccontare tutta la verità alla collettività e anche alla stampa internazionale. Questo per l’ovvia ragione di non seminare il panico e di mantenere la calma, almeno nella fase più critica.
Un segnale inequivocabile della insostenibilità del comunismo?
Se andiamo a guardare i dettagli strutturali, forse la questione diventa al contrario più interessante. Rainer Zitelmann ha sviluppato considerazioni sul disastro che ha devastato la vita della città di Pripyat, ovvero il luogo dove vivevano operai e tecnici in prossimità della centrale nucleare. Va considerato l’orientamento politico di Zitelmann, indubitamente liberale, il che certamente può produrre l’idea che alcune sue considerazioni possano essere “viziate”. Certo è che nell’articolo pubblicato su Linkiesta un paio d’anni fa il report citato dallo storico tedesco sembra abbastanza inequivocabile: “Un rapporto interno al Comitato Centrale del PCUS, preparato un anno dopo l’incidente di Chernobyl, notava che nei dodici mesi successivi al disastro, 320 guasti alle attrezzature si erano verificati nelle centrali nucleari sovietiche, e che 160 di essi avevano portato alla chiusura di emergenza dei reattori. Tutti questi, come i numerosi incidenti precedenti, erano stati tenuti nascosti.” Resta l’indubbiamente esagerata visione sull’insabbiamento, in cui si confonde ciò che era sì una tradizionale operazione comunicativa dei governi comunisti con un fatto però oggettivamente molto diverso, come l’esplosione di un reattore, comunque non paragonabile ai numerosi incidenti precedenti e successivi per portata e danni.