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Il «Discorso agli italiani» di Gentile: 24 giugno 1943

by Corrado Soldato
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Roma, 24 giu – In un denso e ben documentato saggio sui «dioscuri» dell’idealismo italiano (Croce e Gentile. Biografia, filosofia, Pisa 2021), Michele Ciliberto – ricollegandosi al giudizio formulato da Gabriele Turi in Giovanni Gentile. Una biografia (Firenze 1995) – rimandava alla «politicità» come «struttura di fondo, originaria» del pensiero del filosofo di Castelvetrano, mettendola in connessione, peraltro, con il carattere marcatamente politico avuto dall’introduzione dell’hegelismo in Italia nel XIX secolo. È un’osservazione questa, circa l’essenziale politicità di Gentile, su cui è inevitabile dirsi d’accordo, anche in virtù di un confronto tra lo stesso Gentile e l’altro «padre nobile» della cultura filosofica italiana del primo Novecento: Benedetto Croce. Nel cui pensiero vi è sì, come in quello di Gentile, un nesso tra speculazione e azione; ma, rispetto a Gentile, in una forma certo meno intensa e teoreticamente meno fondata.

La filosofia come trasformazione del mondo

L’idealismo di Croce, infatti, si disperde, estenuandovisi, nella «dialettica dei distinti»: quei diversi momenti della vita del soggetto trascendentale (l’uomo quale «antenna trasmittente dello spirito», secondo l’efficace metafora di Montale) che sono l’arte, la logica, l’etica e l’economia (in cui è ricompresa la politica). L’idealismo gentiliano, invece, si impernia sull’unicità dell’«atto»: il pensiero pensante e la volontà volente con cui, pensando (il vero) e volendo (il bene), lo spirito umano produce, in una dialettica mai definitivamente conclusa, il suo proprio mondo. Idealismo attuale (o attualismo) dunque, l’idealismo di Giovanni Gentile, dove tutto si riconduce alla libera e infinita «attuosità» spirituale che, come detto, è pensiero che pensa e, con ciò stesso, volontà creatrice. Onde per cui, nel produrre (e plasmare) liberamente la propria realtà, inclusa quella sociale e politica, l’uomo non incontra altri limiti se non quelli che, nel circolo stesso della vita spirituale, gli oppone la massiccia opacità della natura corporea (inclusa la propria, radice dell’egoismo individuale) – limiti che egli, comunque, è chiamato sempre, com’è suo dovere morale, a trascendere. Una posizione, questa, per cui l’attualismo si presenta come una filosofia che è, al contempo, teoria e prassi. Anzi, soprattutto prassi: una prassi, direbbero i marxisti, rivolta alla trasformazione del mondo. Ne discende, per tornare alla sopraddetta «politicità», un’acuta consapevolezza, da parte di Gentile, del ruolo attivo spettante all’uomo di cultura.

Un pensatore nella mischia

Quella consapevolezza Gentile la esplicitò in un saggio degli anni Venti (Origini e dottrina del fascismo), ove sferrava un duro attacco al «letterato»: il «prodotto bastardo del nostro Rinascimento», il tipo dell’intellettuale disimpegnato in cui s’incarna una cultura che non è autentica cultura, «perché non educa e non fa l’uomo, anzi lo disfà e lo impedantisce e ne fa un don Ferrante». Il letterato è un egoista, incalzava Gentile; individuo politicamente indifferente, meritevole di riprovazione, nella misura in cui si crede «superiore alla mischia, anche quando nella mischia è la sua Patria». Mentre di Gentile, al contrario, tutto si può dire, ma non che si sia «sottratto alla mischia», soprattutto quando erano in gioco i destini della nazione. Il che sa bene chiunque conosca, anche per sommi capi, la biografia del filosofo: dal 1922, quando entrò nel governo Mussolini come ministro dell’Istruzione (e diede all’Italia la prima organica riforma scolastica del XX secolo); al 1943 quando, per coerenza e senso del dovere (virtù morali, dunque spirituali, per eccellenza), lui, che sempre si era dichiarato fascista, non volle abbandonare il Duce al suo destino, nell’«ultimo atto» della Repubblica sociale. E nel 1943, si sa, poco mancava all’assassinio di Gentile per mano gappista, avvenuto nell’aprile dell’anno successivo. E il 1943 fu comunque, per il pensatore siciliano, un «anno decisivo»: quello in cui, a settembre, all’indomani del catastrofico armistizio badogliano, egli terminò la stesura del suo testamento spirituale: “Genesi e struttura della società”. E in cui poche settimane prima, il 24 giugno, aveva pronunciato un appassionato “Discorso agli italiani”; a Roma, in Campidoglio, nella sala dedicata a Giulio Cesare.

L’unico a non tirarsi indietro

“Giovanni Gentile addita dall’alto del Campidoglio il dovere sacro degli italiani nell’ora storica che volge”: così il quotidiano «La Stampa» intitolò l’articolo che riportava il discorso romano del filosofo. Gentile, quando allora prese la parola, era un uomo che, seppur senatore del Regno, aveva da tempo concentrato le sue energie su un lavoro più culturale che politico: docente universitario, era direttore dell’Istituto dell’Enciclopedia italiana e della Scuola Normale di Pisa, nonché proprietario della casa editrice Sansoni. Eppure, quel giorno d’estate di ottantuno anni fa, la sua allocuzione fu eminentemente politica, in un’occasione eminentemente politica. L’orizzonte per l’Italia, impegnata nel conflitto mondiale, appariva quanto mai cupo; perduto l’impero africano, con l’Asse in affanno su tutti i fronti, la penisola era quotidianamente martoriata dalle «infami incursioni» dei bombardieri angloamericani (le «macchine brute» pilotate dai «novissimi barbari», così li apostrofava Gentile). Incombeva, peraltro, la minaccia di uno sbarco nemico in Sicilia e, nell’edificio (un tempo compatto) del regime fascista si avvertivano i primi scricchiolii, che ne facevano presagire il crollo. Mussolini e il segretario del Pnf, Carlo Scorza, reagirono chiamando a raccolta gli intellettuali – quelli fascisti, ma anche quelli meno organici al regime – affinché risollevassero, con la loro eloquenza e il loro prestigio, il morale depresso del fronte interno. Si predisposero conferenze a Napoli, a Roma e a Milano, sulle “Ragioni storiche, morali e giuridiche della nostra guerra”. Croce, il più noto tra gli «oppositori interni», fu interpellato, ma declinò l’offerta. Gentile, invece, coerentemente alla sua idea dell’impegno dell’intellettuale, rispose all’appello: «uscì dal silenzio in cui si era chiuso da mesi, anzi da anni», riferisce il figlio Benedetto (“Giovanni Gentile. Dal discorso agli italiani alla morte”, Firenze 1951), «e fu il solo, tra i tanti ai quali lo stesso invito pervenne, a non trarsi indietro».

Un «fascista della fede» nel “Discorso agli italiani” di Gentile

Nell’orazione campidogliana, cogliendo fior da fiore, si ritrovano molti Gentile, che poi sono aspetti dell’unico Gentile. Vi è il «fascista della fede» e non solo «della tessera», a togliere di mezzo l’equivoco di chi, soprattutto tra gli «intransigenti», lo considerava un outsider, un liberale prestato al fascismo (proprio lui che contrapponeva la libertà al liberalismo, e denunciava il parlamentarismo come un «evanescente fantasma»); e di chi (invero a torto) lo dipingeva, scrisse sulla «Nazione» Ridolfo Mazzucconi, come «un tiepido, un incostante, uno scettico». Vi si rinviene il profeta della «grande Italia», comunità storica organizzata in uno Stato cosciente «del suo diritto e della sua forza, del suo passato e del suo destino». Vi si legge il propugnatore del corporativismo, l’idea rivoluzionaria e tipicamente fascista che era, a suo parere, «la correzione tempestiva dell’utopia comunista». Vi si ascolta il cantore dell’«umanesimo del lavoro» (uno dei grandi temi di “Genesi e struttura della società”), conscio che il lavoro, se ha un valore economico, è soprattutto un valore morale (l’autentica «attuazione della vita spirituale» dell’uomo), ed è perciò degno di riconoscimento politico (quello che proprio il corporativismo gli garantiva).

Quando il destino incombe

Nel discorso di Roma, per concludere, Gentile lo si incontra in toto, il filosofo e il politico – che poi sono, come si è anticipato, la medesima persona. E in esso – sfrondato da certa retorica d’antan e astratto, per quanto possibile, dalla contingenza storica in cui vide la luce – si veicola un messaggio ancora indubbiamente attuale: quello per cui, quando la propria comunità pericola, non è lecito «mettersi al di sopra delle cose», né tanto meno «chiamarsi fuori dell’azione». Non della libertà dell’individuo, infatti, ma di quella dello Stato – «senza la quale non c’è libertà per nessuno» – occorre curarsi, già ammoniva nel 1931 il Gentile di “Risorgimento e fascismo”. E quando («fata trahunt!») il destino incombe e obbliga a schierarsi – è ancora il Gentile del Campidoglio a parlare – «è pavida ansia mettersi in disparte, mentre l’incendio infuria ed è dovere di tutti adoperarsi a spegnerlo».

Corrado Soldato

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