Roma, 7 mag – Continuare a riflettere e a parlare di identità, appare oggi una questione pressante e indispensabile per la definizione della condizione socio-politica dei popoli europei. Condizione che non potrà mai essere accettata passivamente rispetto agli accidenti della storia o, peggio ancora, ad imposizioni di poteri esterni alla civilitas nella quale viviamo. In particolare, l’identità nazionale si pone in Europa come un’esigenza alla quale dare risposte politiche, al fine di favorire la crescita della fiducia sociale. Quella stessa fiducia che entra a pieno titolo nel concetto luhmanniano di confidence, differenziandolo a sua volta dalla familiarità o dalla fiducia finalizzata all’ambito contrattualistico in senso ampio (trust)[1]. La fiducia permette l’esistenza della società ed è la condicio sine qua non dell’azione sociale. La fiducia primaria, quella che ci permette di uscire di casa la mattina e affrontare le incognite della vita, è quindi un fattore vitale della crescita culturale, che mostra altresì segni di stagnazione laddove l’individuo (ego) si trova proiettato in un mondo “liquido”, popolato da altri di cui non può conoscere o intuire aspirazioni, aspettative, stile cognitivo. Questo sperdimento dell’ego di fronte a un alter che non può conoscere, lo costringe a ricercare sensi e significati in ambiti sempre più vicini e comprensibili. Egli diventa straniero nel suo stesso mondo della vita e la sua dimora si riduce progressivamente.
Nel suo saggio Lo straniero, il sociologo Alfred Schütz ha descritto la doppia estraniazione che si produce tra chi si trova a dover interrompere il “flusso dell’abitudine”, dovendo abbandonare quel senso comune che gli garantiva il “pensare come al solito” condiviso con gli altri, e chi, non prendendo parte alla tradizione storica che ha formato il mondo che lo ospita, deve ritradurre il mondo della vita secondo il proprio senso comune, che non appartiene al mondo ospitante[2]. Sono due mappe che non corrispondo: è la crisi. Al contrario, l’umanità che allarga il campo della fiducia (confidence) richiede invece la condivisione di uno stesso stile cognitivo, di una assimilazione di sensi e significati non equivoci: chiarezza che permette di portare sotto al livello della ragione e della coscienza alcuni atti umani, per poter procedere oltre, verso un arricchimento morale e culturale in cui la prospettiva di un allargamento della stessa fiducia divenga una motivazione altruistica. In una parola: l’alter torna ad essere alter-ego, specchio dell’individuo.
La continua introduzione di elementi estranei allo stile cognitivo di un gruppo umano (sociale, locale, nazionale) comporta necessariamente una cattiva assimilazione e una errata traduzione dei significati degli elementi stressi. Oggi l’ideologia dominante, di carattere cosmopolita, è quella di trasformare il disagio di questa cattiva traduzione, cioè incomprensione diffusa a livello sociale, in un nuovo feticcio. In questo modo si osserva la diagnosi e si finisce con identificarvisi, come il malato che si innamora della propria malattia. Non è forse questo il vizio di tanta sociologia contemporanea? Eppure questo subdolo fenomeno ha bloccato la spinta emancipatrice che nasceva dall’interno dei corpi sociali, ripiegandola in un lamento autogratificante e consolatorio, come si può osservare in tanti ambienti della sinistra storica (e oramai la sinistra appare più che “storica”, anzi sclerotica, vista la sua cronica dinamica involutiva).
Riproponendo la definizione di Niklas Luhmann della fiducia come riduzione di complessità, vediamo che essa richiede riferimenti sociali maggiormente integrati, uniti in un processo intelligibile e coerente, adattati allo stile cognitivo che la comunità assume come proprio senso comune. Da qui è possibile mettersi “in moto” e procedere su un terreno solido. Per questo, appare della massima importanza attivare un processo culturale che faccia emergere il Sé nazionale[3], come fattore dinamico che si arricchisce del valore della propria storia. Riflettiamo su un solo elemento fondamentale di questo Sé nazionale: la lingua. Quanta coscienza storica porta con sé una lingua nazionale? Ne siamo consapevoli oggi? I linguaggi sintetici, veloci, estraniati da una pioggia di termini esterni, sono ancora strumento cognitivo? Aumentano la fiducia o rendono soltanto più complesso il mondo della vita? Altri autori hanno insistito, ragionevolmente, su questi aspetti: «Adottando questa impostazione, Karl Deutsch collega la nazionalità alla esigenza di gestire la comunicazione all’interno del gruppo nazionale stesso. In effetti, l’appartenenza a uno stesso popolo favorisce enormemente la comunicazione tra le persone, in quanto mette in condizione ogni individuo di comunicare in modo efficace a un ampio gruppo di soggetti, in modo comunque molto più efficace di quanto avviene tra persone che non si sentano appartenenti a uno stesso gruppo sociale e culturale»[4].
A livello politico internazionale un chiaro segno della ricostituzione della fiducia primaria (confidence) lo si può osservare nelle sempre più frequenti richieste di autogoverni locali e tentativi di secessione (dalla Catalogna, alla Corsica): esse sembrano reagire all’allontanamento del centro di potere con il quale interloquire, quello che tende a chiudersi in uffici irraggiungibili, dove le insormontabili barriere burocratiche si sommano alla comunicazione in un solo senso, dal potere alle genti e non viceversa (Ue, Bruxelles). La risposta delle genti pertanto si orienterà verso la ricostituzione di un potere riconoscibile, nuovamente raggiungibile e comunicante con esse, e verso un centro di potere nel quale si possano riconoscere i tratti distintivi della propria identità, parlante la propria lingua, in grado di esprimere selezioni operanti nell’alveo dello stile cognitivo e della lingua che a quelle genti appartengono. Appare quindi evidente che il tentativo della riconquista della fiducia passi attraverso la ricostituzione del senso comune, veicolato dai tratti identitari, in cui non soltanto la confidence, ma anche la familiarità torni a circolare nelle contrade delle nazioni.
Marco Ricci del Mastro
[1] N. Luhmann, Familiarità, confidare, fiducia: problemi e alternative, in D. Gambetta, Le strategie della fiducia, Einaudi, Torino 1989.
[2] A. Schütz, Lo straniero. Un saggio di psicologia sociale (1944), Asterios, Trieste 2013.
[3] A. Smith, L’origine etnica delle nazioni, il Mulino, Bologna 1998.
[4] La questione dell’identità nazionale nel XXI secolo, Accademia di studi storici Aldo Moro, settembre 2011.
Identità e fiducia: per una sociologia identitaria
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