Roma, 30 apr – «I veri ribelli siamo noi». Così scriveva Giuseppe Solaro, ultimo federale di Torino, assassinato senza processo il 29 aprile 1945. Solaro aveva solo trentun anni. Non fuggì, non rinnegò, non cercò attenuanti. Rimase nella sua città, a testimoniare che la fedeltà non è una variabile delle circostanze ma un dovere dell’anima.
Quello di Solaro era un ideale di giustizia sociale
Oggi il suo nome è uno di quelli che l’Italia ufficiale, quella dei vincitori, preferisce rimuovere, deformare, dimenticare. Ma chi era davvero Giuseppe Solaro? Non la macchietta nera di certa storiografia faziosa, ma un giovane dirigente politico, un economista colto e combattivo, un idealista cresciuto nei GUF torinesi, tra studio, lavoro e passione civile. Solaro credeva in un’idea alta di Nazione: sociale, giusta, moderna, capace di superare sia il capitalismo predone sia il marxismo livellatore. La sua battaglia si concentrò nella promozione della socializzazione delle imprese: una rivoluzione economica che voleva porre il lavoratore al centro della vita produttiva, non come schiavo né come semplice “risorsa”, ma come soggetto protagonista. Una sfida che spaventava i grandi capitalisti e i comunisti: i primi per paura di perdere il potere economico, i secondi perché incapaci di accettare una terza via autonoma tra capitale e bolscevismo.
L’Europa dei popoli
Ma Solaro andava ancora oltre. Aveva ben chiaro – molto più di chi oggi lo nega – che il destino dell’Italia si legava a quello dell’Europa. Non l’Europa delle banche e dei mercati, non l’Europa burocratica e senza volto che oggi conosciamo, ma l’Europa dei popoli, delle civiltà nazionali, della cooperazione organica. “Nell’Europa fascista – scriveva Solaro nel 1941 – il capitalismo finanziario, cioè il dominio impersonale e scientificamente inumano dell’economia, deve essere violentemente abbattuto. Diciamo violentemente, perché certe cattive erbe, se non vengono estirpate con prontezza alla radice, continuano ad allignare e a riprendersi qua e là”. La sua denuncia del capitalismo finanziario, allora appena agli inizi, suona oggi di una lucidità profetica: Solaro intravedeva l’avvento di un’economia sempre più virtuale, sganciata dalla realtà del lavoro e della produzione, basata sulla speculazione astratta e sulla distruzione di ogni vincolo comunitario. Un capitalismo senza radici, senza popoli, senza identità, destinato a svuotare le Nazioni della loro sovranità. «Ribelli contro un mondo vecchio di egoisti, di privilegiati, di conservatori, di capitalisti oppressori, di falliti sistemi, di superate ideologie, di dottrine ingannatrici, dei falsi e dei bugiardi. Ribelli in nome di una società giusta e ordinata, di rispetto del lavoro, di dignità nazionale.» Questo era Giuseppe Solaro. Una visione radicata nella storia, ma protesa verso il futuro.
Il sacrificio
«Questa guerra, per le sue dimensioni e per il suo carattere è anche una profonda rivoluzione sociale ed è semplicemente assurdo credere che il mondo di domani ritornerà sugli stessi binari del mondo di ieri». Un pensiero che fa il paio con l’unica vera interpretazione riguardo l’ultima guerra, di Nicola Bombacci: “La seconda guerra mondiale è nata dall’urto di due concezioni, di due ordini economici, di due morali, di due modi antitetici di sentire i doveri e i diritti dell’individuo nel rapporto con le collettività famigliari, nazionali e mondiali”. Una consapevolezza lucida del proprio ruolo storico in un momento di confusione generale, che ha portato entrambi i protagonisti di Salò ad affrontare la morte a viso aperto. Quando Torino collassò nel caos della guerra civile, Solaro non esitò. Sapendo a cosa andava incontro, scelse comunque di restare al suo posto. Fu catturato, seviziato, impiccato in Corso Matteotti come monito per chi avesse ancora il coraggio della fedeltà. Il suo corpo venne vilipeso e infine gettato nel Po. Ma i suoi carnefici non riuscirono a seppellire la sua memoria. Le sue figlie, Franca e Gabriella, sono cresciute povere, ma fiere di essere figlie di un uomo che seppe morire in piedi, senza abiure, senza compromessi. Oggi, mentre il Primo Maggio viene trasformato nell’ennesima fiera dell’ipocrisia e del conformismo, mentre i sindacati sfilano tra i proclami vuoti e le aziende italiane vengono svendute al miglior offerente, la figura di Giuseppe Solaro torna ad essere attuale. Ci ricorda che il lavoro non è un oggetto di mercato ma il fondamento della dignità nazionale, che la giustizia sociale non nasce da una concessione delle élite ma dalla costruzione di un ordine nuovo. Ci insegna che il patriottismo, la fedeltà, la giustizia sociale sono tutt’uno. Che senza radici, senza sacrificio, senza spirito di comunità, il lavoro è solo merce, l’uomo solo ingranaggio, la patria – compresa quella Europea – solo un’espressione geografica.
La lezione dei veri ribelli
Nel momento in cui il sistema celebra il Primo Maggio a parole e ne tradisce lo spirito nei fatti, Giuseppe Solaro ci offre una lezione viva: quella della militanza come atto di fede, della ribellione come ricerca di maggiore dignità, della lotta come destino dell’uomo nuovo. Il suo sacrificio ci insegna che i veri ribelli non sono quelli che si accodano ai vincitori, ma quelli che continuano a combattere, anche quando tutto sembra perduto. «È il miracolo delle minoranze che creano la Storia, oggi come ieri, come l’altro ieri, come domani.» E oggi, come allora, la scelta non può che essere la stessa: stare dalla parte dei ribelli veri, quelli che non lottano per convenienza ma per giustizia.
Sergio Filacchioni