Belfast, 25 nov – Cambiare il tempo, cambiare le regole, imprimere il proprio nome nella memoria della persone per vivere in eterno, anche quando la propria esistenza pesa quanto, forse maggiormente, il proprio talento. Sono dieci anni che il mondo si è abituato alla dipartita, a 59 primavere per un’infezione epatica, di George Best. The Belfast Boy. Siccome musica e calcio sono in simbiosi consiglio l’ascolto di “Cigarettes&Alcohol” degli Oasis, durante la lettura dell’articolo, per immergersi totalmente nel personaggio Georgie.
Si sono spesi ettolitri d’inchiostro sul figlio prediletto dell’Irlanda del Nord – che per inciso la prossima estate prenderà parte, per la prima volta nella sua storia, agli Europei di calcio – si è detto che fosse il quinto Beatles, il prolungamento della voce di Mick Jagger, la rivoluzione “sessantottarda” in persona, ma dietro al ciuffo e basette si nascondeva l’archetipo della working class, che ha segnato almeno tre decadi dell’immaginario, culturale e sottoculturale, attraverso l’effige della Croce di San Giorgio.
A 15 anni sbarca a Manchester, sponda United, perché Bob Bishop, osservatore dei Reds, lo ha visto all’opera direttamente nella sua terra natia, definendolo letteralmente “un genio”, per consegnarlo allo scozzese, nonché padre putativo di Alex Ferguson, Matt Busby, con l’unico scopo di renderlo leggenda. A Best non serve molto, dopo due stagione esordisce in prima squadra, cominciando a far vedere il suo repertorio. Repertorio fatto di una corsa inarrestabile, gambe leggiadre e un controllo della sfera eseguito perfettamente con ogni parte del piede. Solo un calcio ruvido come quello dei ’60 ha potuto, in minima parte, arrestare George, con tackle assassini da dietro e sportellate ruvide, anche se essendo frutto del genio di un calcio in totale rivoluzione, la sua classe non fu mai intaccata, per sacro rispetto, da difensori con cognomi da killer seriali.
Fidanzato d’Inghilterra e d’Europa ha incantato migliaia di donne ed insieme a loro anche il Benfica di Eusebio. Prima trafitto due volte nei quarti di finale della Coppa Campioni del ’65 e un’altra volta nel ’68 mentre il Man Utd, a Wembley ossario del pallone d’oltremanica, proprio in finale sollevava la prima coppa dalle grandi orecchie dell’epopea dei Diavoli Rossi. Quell’anno è Pallone d’Oro. Best ha fatto tutto quello che doveva fare, a soli 22 anni.
Inizia, anche se la bottiglia lo accompagna da quando è entrato nella fase adolescenziale della vita, il lento gioco con la realtà. Maradona aveva la cocaina, lui l’alcool. Con il passare delle partite, dei campionati, delle stagioni, diventa sempre più il divo che gioca anche a pallone. Quando la carta d’identità dice 28, nel 1974, lascia Manchester per portare il suo bagaglio di drammi e dribbling negli States. Poi lentamente la sua carriera si spegne, ma era già finita.
Si ricordano sopratutto gli aforismi del campione dalla sbronza facile, proprio come per Charles Bukowski, citati nei secoli dei secoli anche da chi non lo ha mai visto galoppare sulla fascia destra – così come si cita Bukowski avendolo letto solo su Facebook – di rosso vestito. La più famosa detta ad un giovane cameriere, mentre pasteggiava a base di champagne attorniato da modelle pari al suo charme: “ho speso molti soldi per alcool, ragazze e macchine veloci. Il resto l’ho sperperato”. George Best manca per questo, perché gli eroi dannati, anche se formati su un rettangolo verde, sono quelli che fanno sognare le generazioni, fanno innamorare dell’arte, della poesia di una finta in una sera di primavera che vale vittoria e una cicatrice indelebile nel cuore dei tifosi.
Lorenzo Cafarchio