Roma, 14 ott. – Antonio Garrigues, ambasciatore spagnolo negli Stati Uniti negli anni sessanta, spiegò così i buoni rapporti del governo franchista con Cuba: “È necessario svolgere una politica non solo giorno per giorno ma anche per la storia passata, presente e futura”. È un principio di buonsenso che conserva inalterata la sua validità.
Il bene comune
La politica non può non tenere conto della cultura e della storia di un popolo e, ancor di più la politica internazionale, non può sorvolare su questi fattori decisivi dell’essere umano. O meglio, la politica può benissimo ignorare storia e cultura dei popoli, ma una politica che decidesse di intraprendere questo percorso finirebbe con l’annientare se stessa declinando nell’impoliticità.
Secondo un punto di vista universalista e moralista questo sarebbe un bene perché porrebbe fine – si dice – a ogni forma di contrasto. Il sogno realizzato della pace globale, cioè la fine della storia, o anche il mondo dei sorvegliati speciali.
La politica è fatta di cultura e storia. La cultura ne traccia i riferimenti, il linguaggio, i significati, i simboli; la storia ne condiziona l’avvenire, ispira gli uomini, consolida la memoria. Sebbene queste componenti siano poi declinate secondo scelte e preferenze particolari, il loro ruolo resta comunque indiscutibile e cementa il senso di appartenenza.
Nel momento in cui il modo di comprendere la storia muta radicalmente attraverso un profondo condizionamento culturale, allora cambia drasticamente la politica, vale a dire il modo di vivere in comune, la gestione della cosa pubblica.
Il fardello della storia
Solitamente si pensa che le rivoluzioni siano esplosioni improvvise, rotture col tempo passato che impongono un nuovo corso completamente “nuovo” e inedito. Non è così. Lo stesso Che Guevara era consapevole che c’erano voluti almeno cento anni per preparare le condizioni della vittoria di Fidel e i suoi. Ogni rivoluzione si prepara nel tempo ed è debitrice del passato molto più di quanto si sia solitamente portati a credere.
La Rivoluzione francese, momento decisivo nella storia europea destinato a condizionarne i secoli a venire, a sua volta, come confermato ampiamente da De Toqueville e Schmitt, affonda le sue radici almeno duecento anni prima, negli anni della crisi dei poteri feudali e nella sempre più vasta influenza di avvocati e intellettuali.
I primi misero in crisi il potere locale e il ruolo della nobiltà attraverso un graduale accentramento dei poteri nelle mani del sovrano. I secondi, gli intellettuali e i “nuovi filosofi”, diedero poi voce allo scontento delle fasce oramai abbandonate dalle antiche tutele e vessate da un apparato burocratico pachidermico. La classe borghese si fece carico di dettare le parole d’ordine alla massa impoverita. E vinse.
È importante capire che ogni cambiamento reale – cioè profondo – richiede tempo e, soprattutto, preparazione.
Un esempio storico significativo a tal proposito è l’Impero mongolo fondato da Gengis Khan. Questo regno esteso dalla steppa eurasiatica alla Cina fino ai confini orientali d’Europa è stato per duecento anni il più vasto impero che la storia dell’uomo abbia conosciuto.
Questa straordinaria costruzione politica resse dal 1204 al 1405, quindi per due secoli, governando popoli di religioni e culture differenti. Se si considera l’instabilità in cui era precipitato il mondo medievale dell’epoca con la crisi dell’Impero Romano d’Oriente, la divisione del mondo islamico e le guerre dinastiche in Cina, l’osservatore attento non può non domandarsi come dei brutali nomadi militaristi abbiano potuto controllare politicamente un territorio così vasto. Le basi furono poste dal fondatore Temujin, il quale si attorniò di consiglieri capaci e fidati, sfruttò un’efficente rete di collegamenti interni e non interferì con la cultura e la religione locali.
Ma l’incontro di due popoli distanti e differenti non è cosa priva di traumi e tensioni. La ferocia con cui i mongoli assoggettarono una ad una le nazioni che incontrarono nella loro marcia contribuì senz’altro al rafforzamento del loro potere, ma nella fase successiva, cioè nell’amministrazione del territorio, non è sufficiente la forza bruta per governare. Governare su un’area così estesa richiedeva la possibilità di un’integrazione tra conquistatori e conquistati che non fosse soltanto di facciata e superficiale, ma che facesse perno su basi comuni e aspetti comprensibili. Questi affondavano nella storia di molti secoli prima, sin dalle invasioni degli Unni del IV-V secolo, per continuare con i confronti non soltanto militari tra stirpi mongole e popoli confinanti.
L’Impero mongolo fu in realtà una costruzione effimera e la sua solidità politica nel lungo periodo si disperse in più tronconi, ma dove la sua eredità perdurò in un modo o nell’altro fu precisamente dove resistevano legami culturali di lunga durata. Altrove, come in Lettonia, l’irruzione mongola stimolò un’energica risposta militare e politica. La vicenda mongola non presenta caratteri rivoluzionari, ma dimostra quali siano le difficoltà concrete che si presentano quando due popoli diversi per lingua, tradizioni e storia si incontrano e cercano un terreno comune. Questo deve essere arricchito da molti anni di contatti altrimenti, nel lungo periodo, non farà che spingere al rigetto e alla guerra aperta.
L’asse che non vacilla
La crisi economica, politica, demografica che in questi anni colpisce il Vecchio Continente non è una cosa di ieri e per essere superata richiede una visione d’insieme, di ampio respiro e che sappia andare alla radice del problema. È necessaria cioè una prospettiva radicale.
La radice dei processi che oggi acquistano sempre maggior rapidità e forza affonda nella cultura europea e in essa si è radicata e diffusa. È la mitologia egualitaria e universalista dell’Illuminismo espressa nella fede nei diritti umani e nelle libertà individuali. La manipolazione del linguaggio ha prodotto una distorsione del pensiero e la paralisi dell’agire storico. Per questo oggi più che mai è necessaria una rigenerazione della cultura integrale, capace di restituire l’autentico significato alle parole e rimettere in asse il pensiero.
Come efficacemente esemplificato dal film Inception, sono le idee semplici, una volta radicate in profondità, a produrre gli effetti più grandi. Per dirla con Jünger: le vere rivoluzioni avvengono in silenzio. Basti pensare che i popoli di lingua indoeuropea sono stati considerati per molti anni dei “fantasmi della storia” o frutto di pura fantasia, perché la loro esistenza non pareva potesse essere dimostrata dai resti archeologici.
L’antica presenza di queste genti nel continente eurasiatico si è infatti consolidata silenziosamente, conquistando in profondità le popolazioni autoctone attraverso una vasta operazione culturale e non soltanto militare. Gli Indoeuropei infatti tesero ad adottare i costumi esteriori dei popoli assoggettati e le loro eventuali conquiste tecnologiche, ma seppero radicare nel profondo la propria forma mentis e la propria religio. La storia come silenzioso stratificarsi.
L’asse storico-culturale europeo è in primo luogo rappresentato da Atene, Roma e Berlino, e la profonda eredità trasmessa da Omero, Eschilo, Sofocle e le poleis, Virgilio, Roma repubblicana e imperiale, il Rinascimento e i comuni fino ai due Federico e la visione unitaria ghibellina, il Romanticismo, la Prussia e la cultura tedesca otto-novecentesca.
Queste sono le basi millenarie con cui bisogna fare i conti se si vuole parlare sinceramente di Europa, confronto tra popoli e quant’altro. E persino la fede cristiana, quando si trasformò in identità nazionale e argine europeo, fu una cosa ben diversa da quello che è diventata oggi. Il fatto che politici inetti e irresponsabili scelgano di annacquare l’eredità della propria nazione nel nome di “valori universali” non significa affatto che le genti extra-europee siano disposte a fare altrettanto. Le culture forti e vitali assorbono e attraggono quelle più deboli; ma le culture forti conquistano, non accolgono in modo squilibrato e sconsiderato.
Il compito della Scuola di Francoforte è stato precisamente quello di sferrare con le raffinate armi della cultura l’attacco profondo e decisivo al pensiero europeo, al fine di fissare e condizionare i termini di qualsiasi dibattito culturale socialmente accettato. Accettare i termini della discussione significa, implicitamente, accettare la forma mentis dominante e, in ultimo, essere sconfitti in partenza.
Chi si farà dunque carico di decidere i termini della questione e “tracciare la linea”?
Francesco Boco