Roma, 15 lug – Per comprendere a fondo l’animus di una forma tradizionale, della sacralità che si manifesta come strumento di connessione dell’umano con il divino, spesso è necessario considerare il Nume principale a cui ci si riferisce ma anche il sacerdote che, nella dimensione terrena, ne esercita e ne esplicita facoltà e potestà. Nell’ ambito della Tradizione Romana tale prospettiva d’indagine è agevolata dalla presenza di una figura sacrale di primissimo rilievo, il Flamen Dialis, che era la massima espressione di Giove nell’ambito della specifica religiosità: “il più importante dei sacerdoti, e anche, il più importante fra gli uomini” (Tacito, Annali, III, 58). I flamini erano, nell’ambito dell’ordo sacerdotum, coloro che gestivano il culto di una singola divinità (Cicerore, De Legibus, II – 8, “Diuisque aliis alii sacerdotes, omnibus pontefices, singulis flamines sunto”), ve ne erano di Maggiori e Minori, e tra i primi ve ne erano tre dedicati alle tre divinità della romanità prisca, Giove (Dialis), Marte (Martialis), Quirino (Quirinalis). Gli studiosi hanno avanzato varie ipotesi sul significato etimologico della parola “flamen”, suggestivo è l’accostamento con il brahman indiano, quale intermediario divino, come colui che accende e soffia sul fuoco rituale, anche se etimologicamente il Benveniste (Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, vol. I, Piccola Biblioteca Einaudi, p. 219) ha manifestato una certa problematicità linguistica in tale accostamento: rimane, però, il suffisso – men come una variante comune presente in tutto il mondo indoeuropeo, che indica la categoria della personalità maschile. Un’altra interpretazione deriva dalla denominazione da filamines, la caratteristica copertura circolare che ne adornava il capo (Varrone, De Lingua Latina, V – 15).
Tornando specificatamente al Flamen Dialis, la sua funziona fu istituita da Numa per sostituire il Rex quando lo stesso era lontano dalla città per motivi militari (Tito Livio, Ab Urbe Condita, I – 20) e rimase, in seguito, l’attribuzione sacerdotale più importante, seconda solo al Rex Sacrorum: “…il primo fra i flamines, il dialis, si presenta come la duplicazione del rex e costituisce il palladium vivente della res publica” (Dumézil, Idées romaines, Paris, Gallimard, p. 157). Egli, infatti, non nominato casualmente, ma essendo stato “preso”, captus, dal Pontifex Maximus, da una terna di patrizi i cui genitori fossero sposati per confarreatio (Tacito, Annali, IV – 16), non può essere considerato un semplice amministratore del Sacro, essendo egli stesso un oggetto sacro, un uomo divinizzato. Al di là di alcune interpretazioni fantozziane che hanno trasformato il Dialis in un prete di Giove o in un suo amministratore di condominio, le fonti antiche ed i più rilevanti studi antropologici moderni concordano con la famosa definizione di Plutarco (Questioni Romane, 111), che definiva lo stesso una statua vivente del Nume. Non si spiegherebbero altrimenti i suoi obblighi, nell’essere ritualmente castus (Ovidio, Fasti, I – 587), i 25 tra divieti e prescrizioni a cui doveva attenersi e descritti nelle Notti Attiche di Aulo Gellio (X – 15).
A ciò va aggiunta l’importante della figura della moglie, la cosiddetta Flaminica, la sposa sacrale e simbolica, dedita al culto di Giunone, la cui presenza era indispensabile in alcuni riti, la cui morte faceva cessare l’azione sacerdotale del Dialis. In quanto predetto e in tale connubio ierogamico, emerge tutta la portata iniziatica del Flaminato, occultandosi quell’equilibrio ermetico tra principio maschile e principio femminile che non è casuale ed unico nella religiosità romana: rammentiamo sinteticamente, per esempio, come nel primo giorno del calendario il riferimento cultuale non fosse solo quello al rinnovo marziale del Fuoco nel Sacrario ma ad esso erano associati i Matronalia, i riti propiziatori a Iuno Lucina; similmente, a Luglio nel corso del periodo sacro ad Apollo, nei Ludi Apollinaris, vi era un giorno, il 6, sacro a Iuno Caprotina, in cui vi era l’inibizione del latte di caprifico. Il Flamine di Giove, che non era denominato Iovialis a caso ma Dialis, a determinare una specifica funzione numenica, cioè la polarità arcana del Sole, copulava ritualmente con la moglie che di Giunone, di Demetra, di Cerere, della dimensione orfica era l’espressione simbolica e sacrale. Karl Kerényi, in uno dei saggi più belli e profondi dedicati alla religiosità romana ed al Flamen Dialis (Uomo e Dio nella concezione romana, in Religione Antica, Adelphi, p. 147ss), ci ragguaglia di una profondità spirituale particolarissima insita in tale sacerdozio, nel quale le radici degli uomini e dei Numi si ritrovavano nelle loro polarità, nella loro autenticità, ben oltre il mero aspetto giuridico e cultuale. Si realizza la connessione, secondo Domizia Lanzetta (Sacerdozio e liturgia nella Roma pagana, Simmetria, p. 75ss), con un Nume di cui si ignora il nome e la natura propria, un abisso in cui è necessario riaccendere un lume, primariamente in coloro che del Sacro sono facitori, cioè i sacerdoti. E’ la valenza magica della ritualità romana a cui accenna la stessa Lanzetta (op. cit., p. 137), la capacità non di comprendere razionalmente ma di vivere il Mistero dell’Urbe. Vi era la capacità di rendere presenti i Numi che si evocavano, perché si incarnava nei facitori del Sacro la qualità intrinseca della Divinità. Tale è la comprensione iniziatica del Sacro a Roma, al di là delle interpretazioni popolari e dogmatiche, come espresso anche da Evola in Rivolta contro il mondo moderno: “Se dei punti di vista più condizionati non erano esclusi nell’essoterismo, ossia nelle forme tradizionali destinate al popolo, alle «dottrine interne» fu proprio l’insegnamento, che le forme personali più o meno oggettivate di divinità sono simboli per modi superrazionali e superumani dell’essere” (Roma 2010., pp. 87-8).
Appare necessario, proprio su tale aspetto della problematica, tentare di rendere ancora più esplicita l’affermazione di Plutarco sull’essere il Flamen Dialis “una statua vivente di Giove”; ciò in relazione anche a quanto afferma il Kerenyi, nella predetta opera, sull’essere il Flamen: quotidie festivus, cioè sempre nel Sacro, nella Festa che è l’irruzione o la sospensione del tempo e dello stato profani. Tutto ciò è confermato inoltre da due evidenze dottrinarie: il primo è evidenziato nel commento di Ur (Massime di Saggezza Pagana, in Introduzione alla Magia, vol. III) alla famosa risposta di Plotino ad Amelio, suo discepolo, che lo invitava a partecipare ai Riti religiosi, lo stesso Plotino affermò “Non io devo andare agli Dei ma gli Dei venire a me!”; il secondo è la gerarchia sacerdotale arcaica di Roma così come tramandataci dal lessicografo Festo, dove i Flamines nei convivi rituali, a cui partecipavano tutti i Sacerdoti pubblici, essendo Azione Sacra e quindi Essere (Spoudàios, come afferma Plotino) e cioè, in termini a noi comprensibili, Iniziati (come precisa Evola nella predetta opera e nel predetto passo) hanno la preminenza Festiva e quindi gerarchica (Kerenyi) sui Pontefici medesimi che sono invece la Scienza Sacra, detenendo la stessa e non possedendola, data la loro natura sacerdotale e non incarnando quindi la natura attiva e magico-guerriera della Romanità (cfr. Giandomenico Casalino, Il nome segreto di Roma. Metafisica della romanità, Roma 2003, pp. 60-61). Tale dimensione dello Spirito è riconfermata, secondo il sano conservatorismo spirituale romano anche nella fase repubblicana della Romanità, dove l’azione Sacrale e cioè il Rito è eseguito dal Console che è l’Azione e il Pontefice, Signore del Sapere, suggerisce al primo le Parole di Potenza tratte dal Formulario che egli, incarnando il principio spirituale femminile, custodisce gelosamente.
Da tutto ciò si può evincere che i Flamines non sono, in realtà Sacerdoti in senso stretto, e cioè nel senso femminile del termine, in ordine ai principi universali delle civiltà tradizionali ed in relazione alla sfera spirituale dagli stessi incarnata – valga ad esempio la funzione di sacrestano del Re che svolge il Purohita vedico -, ma sono il Sacro poiché sono l’Essere dell’Azione Sacra che agisce quale Nume di fronte al Nume poiché possiede la Potenza (Çakti) cioè la Scienza, mentre il Pontefice semplicemente la detiene e la custodisce riservando l’uso sacrale della stessa al Re o al Console. Dove tale Sapienza si esplicita definitivamente è nel ritorno all’unità del principio maschile (Imperator) con quello femminile (Pontifex) che si attua con Augusto e quindi con il circolare ritorno alla spiritualità arcaica della medesima Romanità.
In conclusione, basterebbe intendere nella loro valenza ermetica le parole di un fulmineo riferimento di Kerényi per intendere l’essenza del Dialis, dell’intera Tradizione di Roma e del compito che attende coloro che ad Ella si riferiscono: “Un mito viene così trasposto nella vita umana” (op. cit., p. 163).
Luca Valentini