Roma, 9 apr – A volte occorre sgombrare la mente dall’eccessiva complessità delle teorie complottiste o cospirazioniste più astruse e basarsi semplicemente sui dati facendo, come si suol dire, i conti della serva. Quando si dice, citando Pound, che i politici sono servi dei banchieri, molti pensano che la cosa possa evocare le inesistenti Ur-Lodges inventate da Magaldi, o il complotto giudaico di Blondet, o magari i rettiliani di Icke.
In realtà, basterebbe con pazienza leggere un paio di numeri. Negli anni ’70 è iniziato il processo di liberalizzazione dei movimenti di capitali ed in generale del settore finanziario, che gradualmente ha portato a quella iper-concentrazione di ricchezza, potere ed influenza nota ai più come “globalizzazione”, nell’ottocento viceversa chiamata “impero britannico”. Al mondo ci sono oltre 40.000 banche riconosciute (quindi non considerando gli usurai comuni che pure fanno ampiamente parte del gioco), ma i G20 riuniti a Cannes nel 2011 dichiarano “sistemiche” solo ventotto banche e nove istituti assicurativi. Perché? Forse lo aveva ordinato in loggia il Gran Maestro? O forse perché i capi di Stato ivi intervenuti lo avevano giurato sulla testa del Bafometto? Molto più banalmente, la somma dei loro attivi (ovvero dei soldi che qualcuno doveva loro) era pari all’epoca a 50.241 miliardi di dollari. 50 trilioni abbondanti di dollari. Molto più della somma di tutti i debiti pubblici del pianeta, tanto per fare un esempio. Ora, è semplice capire che se 28 istituti hanno un bilancio consolidato di 50 trilioni di dollari, non c’è complotto che tenga: le regole del gioco le dettano loro e punto. Il fallimento di una di queste banche o di uno di questi nove istituti può comportare la caduta di tutti gli altri, poiché ciascuno ha assunto dimensioni ed estensioni impressionanti, il che obbliga di fatto i governi di tutto il mondo a fare l’impossibile per sostenerli. Il che, evidentemente, comporta la sospensione di fatto della sovranità e della democrazia che su essa poggia, perché sposta le decisioni importanti in un ambito del tutto esterno a quello pubblico.
Nel 2007 la crisi finanziaria investì il settore dei prodotti derivati. Ebbene, soltanto quattordici delle ventotto banche anzidette fabbricano prodotti finanziari derivati il cui premio nozionale raggiunge 710mila miliardi di dollari, cioè un po’ più di dieci volte il PIL mondiale, mentre dieci di esse gestiscono l’80% della transazioni che implicano un cambio valutario. A ciò si aggiunge, come dimostrano le inchieste, che undici tra di esse – Bank of America, BNP-Paribas, Barclays, Citigroup, Crédit suisse, Deutsche Bank, Goldman Sachs, HSBC, JP Morgan Chase, Royal Bank of Scotland et UBS – hanno sistematicamente adottato “intese” per manipolare il mercato degli scambi o del Libor, il tasso d’interesse nei prestiti interbancari di riferimento, stabilito a Londra. Il centro strategico di questo giochino alla moltiplicazione dei miliardi in fantastiliardi è la City di Londra. L’oligopolio bancario di oggi gode dei vantaggi imparabili offertigli dalla City. Questa realtà è un vero e proprio Stato nello Stato, una cittadella il cui sindaco è eletto dalle banche e con un rappresentante non eletto al Parlamento britannico: si chiama City of London Corporation ed è un paradiso fiscale, il prototipo di tutte le altre piazze esentasse create da Londra, negli anni Cinquanta, sulle innumerevoli isole dell’Impero Britannico (isole anglo-normanne, isole Cayman, isole vergini britanniche e altre). Il regime fiscale applicato alla City sostanzialmente è una sorta di autogestione delle banche medesime, il che rende la City anche il centro planetario del riciclaggio di danaro sporco.
Quando l’Unione Europea, nel nome della “concorrenza”, fustiga le posizioni da oligopolio dei cartelli e pretende l’apertura di certi settori alla concorrenza “libera” e “non falsata”, la Commissione Europea, presso cui operano circa 50 mila dipendenti delle lobby installati a Bruxelles, si è sempre rifiutata di interessarsi anche alla City. Ecco l’essenza del capitalismo, diventato turbocapitalismo. Aggiungere ad esso le strane sovrastrutture tanto in voga, fin dai tempi del signoraggio o delle scie chimiche, non aiuta alla comprensione generale, ma anzi svia l’attenzione dalle basi stesse del discorso.
Matteo Rovatti
1 commento
Certamente è un meccanismo molto semplice da capire, ma proprio perché così semplice da capire allora è semplice da attuare da parte delle banche e da fermare da parte dei governi. Basta convincere i governi dei vari Paesi a perdere un po’ di sovranità finanziaria, aiutandosi con laute mazzette, e diventare troppo grandi per fallire. Di solito, a farlo sono stati i noti J dell’alta finanza e di vecchia casata. Ormai che il gioco è fatto, il problema è sistemico. Ma non è iniziato a caso.