Roma, 3 set – Le recenti polemiche sul Fertility Day hanno riportato al centro del dibattito nazionale il tema della maternità. A detta delle “neo-femministe”, la visione corrente della donna/madre deriverebbe da una prospettiva maschilista, figlia di una società genericamente definita come patriarcale – termine peraltro utilizzato impropriamente facendo riferimento ad un improbabile mondo fallo-centrico, tendenzialmente fascistoide, in cui l’uomo è crudele sovrano mentre la donna una vile sguattera. Se ne discute praticamente in tutti gli ambiti: politici, sociali e perché no di costume. Se però da un lato saremmo stati bombardati quotidianamente da questa prospettiva, è difficile riscontrarne nell’immaginario una visione uguale e contraria. Lo Yang femmineo dello Yin virile. In parole povere: come sarebbe nascere in un sistema sociale matriarcale, una società cioè in cui è la femmina a detenere il potere, l’autorità e i beni materiali?
Se la fantascienza – parafrasando Carrère e citando Boucher – consiste nel porsi la domanda: “E se?”, allora è proprio lì che dobbiamo rivolgere lo sguardo. A guardar bene infatti c’è una pellicola che più delle altre ha analizzato il tema. E non parliamo di un vago e misconosciuto b-movie, ma di una pietra miliare del genere: Alien di Ridley Scott. A trent’anni dalla sua uscita, Alien continua a suscitare tra gli esperti di cinema e psicologia un acceso dibattito sulle possibili interpretazioni. Quasi tutte tendono comunque a concordare sul carattere prettamente femminista del film: si pone infatti l’accento sulla chiara assenza, nei personaggi, di una distinzione tradizionale basata sui generi, e sulla potenza – visiva e non – della protagonista indiscussa, la splendida ed indimenticabile Sigourney Weaver. Grattando bene sotto la superficie però emergerebbe qualcosa di nuovo e terrificante. Riguardiamo qualche fotogramma.
Alien si apre con la sequenza di un parto: buio, oscurità, silenzio. L’assenza di vita. Solo un leggero soffio tra le pagine di un libro abbandonato nei corridoi della Nostromo (la navicella spaziale). Improvvisamente le luci dei monitor si accendono. La telecamera ci guida, galleggiando, ad una porta che finalmente aperta svela l’equipaggio addormentato. Corpi seminudi immersi in un bianco latteo. Uomini e donne, fianco a fianco, nel ventre della stanza. Così, in un dischiudersi meccanico delle capsule che lo contiene, il primo membro dell’equipaggio, Kane, viene alla luce. Le dissolvenze che seguono rendono perfettamente il disorientamento della nascita. È un parto strano però, asettico ed indolore. Un soggetto già formato è stato procreato eliminando di fatto l’onere della gravidanza e del parto alla donna, e ponendo così le basi ad una potenziale “gestazione maschile”.
Cambio di scena: l’equipaggio pranza amabilmente intorno al tavolo come una famiglia felice. Tutti figli di Mater (Mater è il nome del computer di bordo della Nostromo, ndr). Un vociare confuso, finché – in un impeto di coraggio “classista” – i due meccanici lamentano la disparità della paga: “Tutti gli altri” dicono “prendono più di noi”. Quel “tutti” ovviamente comprende Ripley e Lambert (le due donne a bordo, ndr). La paga degli uomini, nel mondo di Mater, è uguale a quella delle donne. Tutti lavorano insieme, in simili ruoli, in un’equa distribuzione del lavoro. Non esiste differenza di genere, solo di classe sociale. Siamo noi a poter riconoscere Ripley come una donna e Kane come un uomo, ma Mater non può. I personaggi non hanno neppure nomi propri, soltanto cognomi asessuati. Un idillio, penserà qualcuno/a. Ciò che sin qui però è stato presentato come egualitarismo di genere, diventerà ben presto confusione e orrore:
Atterrati sulla superficie di un pianeta sconosciuto ed in perlustrazione all’interno di un enorme relitto alieno – realizzato peraltro a forma di gambe divaricate rivolte al cielo – si verifica la vera gravidanza “organica” del film: è qualcosa però di nuovo e spaventoso rispetto a quanto siamo naturalmente abituati. È Kane, primo membro uomo dell’equipaggio, ad essere ingravidato da un mostro a forma di scorpione, che stupra letteralmente per via orale il malcapitato. Un atto di vero e proprio dominio sessuale. Una vendetta che si esplicita nella castrazione simbolica dell’uomo. Figlio di questo ribaltamento, nascerà il mostro, lo Xenomorfo, Alien. La degenerazione che da vita al male.
Certo, alla fine sarà soltanto la prontezza ed il coraggio di Ripley a risolvere la situazione, ma all’epoca delle riprese non si trattò di porgere il fianco a tendenze femministe, quanto ad esigenze di copione. Dal canto nostro, la Weaver più che immaginarla come una Femen ante litteram – pronta solo a dar scalpore urlando di presunti diritti in assenza di doveri – ci piace immaginarla come una moderna Caterina Sforza che, citando la poetessa futurista Valentine de Saint-Point dal suo Manifesto della Donna Futurista: “mentre sosteneva l’assedio della sua città, vedendo dall’alto delle mura il nemico minacciare la vita di suo figlio per obbligarla ad arrendersi, mostrando eroicamente il proprio sesso, gridò:‘Ammazzatelo pure! Mi rimane lo stampo per farne degli altri!’”.
Davide Trovato