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Farsi fregare la morte da Hemingway: quando Céline ci lasciò

by Adriano Scianca
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celineRoma, 17 mag – “È stato come non andarci per niente. / Céline era morto. / Non c’era nessuno / sedersi al tavolino di un caffè / era come attirare sguardi guardinghi dagli altri / clienti / tutti sicuri di essere / più importanti di / te. / Il cibo era troppo caro per mangiare. / Una bottiglia di vino ti costava / la mano sinistra. / Céline se n’era andato. / E Picasso stava morendo. / Parigi era il niente più assoluto”.

Dalla capitale francese, in realtà, il dottor Louis Ferdinand Auguste Destouches se ne era andato tanto tempo prima, ma la cosa non sembrava attenuare la delusione di Charles Bukowski, che in questi versi faceva dello scrittore l’essenza stessa di una città, di una nazione, di una letteratura e di un’epoca.

Paradossale, ma forse no, per uno che la bella società della Rive Gauche aveva scelto di osservarla da lontano, dalla sua casa di Meudon, che vagamente ricordava il Bates Motel di “Psycho”, ma dove non poteva esserci la stessa tensione perché a un certo punto faceva irruzione sulla scena questo vecchio scorbutico vestito da barbone che imprecava contro la moglie Lucette mentre dava da mangiare a Bébert, il gatto più famoso della letteratura francese, tenendo sulla spalla il pappagallo Toto.

È isolandosi dal mondo, odiandolo, maledicendolo che Céline è riuscito a rispecchiarlo. È imprecando contro la modernità che Céline ne ha creato la lingua. Proprio per questo, la morte di Céline ha a che fare con lo spirito del tempo.

La morte di Céline è anche il titolo di un bellissimo pamphlet di Dominique De Roux appena uscito in libreria (Lantana, pp. 135, € 16,00). Scritta come uno scintillante flusso di coscienza, céliniano ma non “à la Céline”, l’opera fu pubblicata in Francia nel 1966, contribuendo in maniera determinante a riaprire il dossier sull’autore del Voyage.

Pagina dopo pagina, scorrono fiammeggianti immagini apocalittiche: “Nell’assenza quindi di qualsiasi letteratura che divenga il destino mondiale, il nostro cammino va avanti, giorno e notte, tra cani e lupi, sui termitai di parole decadute, ripudiate dall’essere”.

La morte di Céline avvenne il 1 luglio 1961, in una giornata di caldo torrido, ma nessuno ne parlò, anche perché fece molto più rumore la fucilata che a poche ore di distanza si sparò Ernst Hemingway (“Ernie. Pensavo che ti fossi sparato un colpo di fucile da caccia”, recita maligno un altro verso di Bukowski). Il 29 giugno aveva terminato Rigodon. Due giorni dopo venne colpito da aneurisma e morì per la successiva emorragia cerebrale.

Viene sepolto non a Père-Lachaise, come aveva richiesto più per dar fastidio che per brama di pubblici onori, ma al cimitero di Meudon. Alle esequie ci sono quattro gatti, più un gatto vero e proprio che gironzola intorno alla tomba: Roger Nimier, Claude Gallimard, l’attrice in odore di collaborazionismo Arletty, e ovviamente Lucette. Ma nessuno di quelli a cui i romanzi di Céline avevano insegnato i rudimenti linguistici di quest’epoca di senso deflagrato.

Per De Roux, del resto, “Céline fu ucciso dai suoi colleghi scrittori; da questa consorteria di gentucola unita (in ogni epoca) per autocompiacersi del proprio talento e scacciare l’uomo libero, lo scrittore senza compromessi, colui che finisce in cella, in fin dei conti, per il suo rifiuto di appartenere a chicchessia”.

Contro questa mafia editoriale, Dominique De Roux lotterà per tutta la sua breve ma intensa vita (si spegnerà nel 1977 per problemi cardiaci). Suo nonno, Marie de Roux, era stato l’avvocato di Charles Maurras e dell’Action française. Suo figlio, Pierre-Guillaume, dirige oggi la casa editrice omonima che ha pubblicato il libro testamento di Dominique Venner e il sulfureo Elogio letterario di Anders Breivik, scritto da Richard Millet.

Proprio nel 1961, Dominique de Roux aveva fondato i Cahiers de l’Herne. Si imporranno grazie al terzo numero, dedicato appunto a Céline. Prima ce n’era stato uno su Bernanos, dopo ce ne saranno altri su Pound, Ungaretti, Lovecraft, Solgenitsin, Meyrink, Koestler, Péguy e Abellio. In seguito dialogherà con i poeti della beat generation e si accapiglierà con i marxisti di Tel Quel. Non farà in tempo a vedere le conventicole del mestiere letterario rinverdire la ferocia di un tempo, ma senza più bisogno di fingere di scrivere davvero. Ma questo è solo un colpo di fortuna.

Adriano Scianca

(articolo uscito sul Foglio di sabato 16 maggio)

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