Roma, 16 mag – Le recenti e prolungate polemiche sulle unioni civili hanno posto con forza in cima all’agenda il tema – politico, ma anche sociologico e filosofico – della famiglia. Purtroppo, però, il fronte che si è opposto alla legge recentemente approvata si è spesso appiattito su posizioni confessionali o sulla difesa di una “legge naturale” dalle fondamenta filosofiche più che traballanti. Tutto questo quando esistevano molte opzioni teoriche a disposizione per formulare posizioni originali sul tema. Le posizioni sul tema della famiglia di Julius Evola sono a tal proposito interessanti.
Anche a livello personale, Evola non ha mai mostrato di interessarsi troppo a qualsivoglia dinamica familiare. Della sua, di famiglia, non ha parlato praticamente mai. Né i biografi sono riusciti a individuare nella sua vita una sola relazione minimamente stabile che possa aver indicato la semplice tentazione di “mettere su famiglia”. Il dato personale si riflette perfettamente nella teoria. Nei suoi due libri più importanti del dopoguerra, Cavalcare la Tigre e Metafisica del Sesso, Evola affronta in modo molto critico l’istituzione familiare. Nel primo saggio, il pensatore tradizionalista spiega che “la famiglia già da tempo ha cessato di avere un qualche significato superiore, di essere cementata da fattori vivi d’ordine non semplicemente individuale”. La realtà è piuttosto quella di “una istituzione piccolo-borghese determinata quasi esclusivamente da fattori conformistici, utilitari, primitivisticamente umani e al massimo sentimentali”. Ma se viene a mancare l’ordine – non l’ordine della rispettabilità borghese, ma la forza spirituale datrice di senso – tutto è destinato a sfaldarsi ed è inutile ergersi moralisticamente a difesa di ciò che è destinato a rovinare: “Nel clima individualistico della società attuale non si potrebbe invece indicare nessuna superiore ragione a che l’unità familiare debba sussistere quando l’uomo o la donna ‘non vanno d’accordo’ e i sentimenti o il sesso li conducano a nuove scelte”.
Tant’è che, in occasione del referendum sul divorzio, Evola, in un articolo uscito sul Conciliatore, rimprovererà agli antidivorzisti a oltranza di voler tenere in vita una “artificiale costrizione”, pur ritenendo che si dovrebbe distinguere tra matrimonio civile di massa e matrimonio religioso aristocratico, quest’ultimo solamente da ritenere “indissolubile”. Si arriva allora alla sentenza dura e cruda: l’uomo differenziato, si legge in Cavalcare, “non può dare un qualche valore a matrimonio, famiglia, procreazione. Tutto ciò non può che essergli estraneo; non può riconoscervi nulla di significativo, di meritevole di una sua attenzione”. In queste condizioni, “la stessa procreazione assume un carattere assurdo”. Anche quando sarà meno drastico sul tema, Evola dimostrerà comunque di non tenere in nessun conto l’importanza “quantitativa” della prole in sé, dato che invece assume rilevanza differente in un’epoca di denatalità galoppante, immigrazione selvaggia e Grande Sostituzione. Ma certo il ragionamento evoliano sul fatto che sia più importante quali figli si fanno più che quanti conserva una sua quota di sensatezza ancora oggi.
In Metafisica del Sesso, invece, Evola indaga il lato mistico che è – o meglio, può essere – immanente nell’eros. Qui, addirittura, tutto l’aspetto della procreazione e della “sistemazione” appare come un penoso impaccio al magnetismo erotico: Evola riscontra “una nota di ridicolo” nell’immaginare “Tristano e Isotta, Romeo e Giulietta, Paolo e Francesca” in una “vicenda a lieto fine e col bambino, anzi con una nidiata di bambini”. Non manca un apprezzamento per la poligamia, che “ha per naturale presupposto un tipo maschile in cui l’Io abbia un maggior grado di libertà rispetto all’eros”, mentre il passaggio alla monogamia “non è per nulla indice del subentrare di un tipo virile superiore a uno inferiore, ma esattamente il contrario”.
Tutto da buttare, quindi, nella famiglia? Non proprio. Accanto alle derive individualistiche del matrimonio moderno, infatti, è esistito anche un matrimonio tradizionale. Scrive Evola in un articolo uscito su un foglio monarchico che fra poco citeremo: “Solo col riportarsi direttamente e risolutamente non allo ieri, ma alle origini, noi possiamo trovare ciò che veramente ci occorre. E queste origini, a noi dovrebbero essere accessibili. In modo particolare, se la tradizione nostra, romana, della famiglia, è fra quelle che han portato ad espressione il concetto più alto e originario di essa”. Sempre in Metafisica, Evola ricorda che “nel matrimonio antico il fattore individualistico era d’ordinario assai ridotto, non appariva come il fattore determinante. Spesso si badava solo accessoriamente all’inclinazione e all’affetto; era la stirpe che, invece, si aveva soprattutto in vista”. Fare dei figli significava allora “conservare e tramandare nel tempo la forza mistica del proprio sangue”. Evola ricorda anche “la parte che la donna spesso ebbe nel culto domestico indoeuropeo, in relazione col fuoco, di cui era la custode naturale, avendo essa stessa, in via di principio, la natura di Vesta, ‘fiamma viva’ o fuoco-vita. La donna era in un certo modo il sostegno vivo di questa influenza sovrasensibile, facente da controparte al puro principio virile del pater familias”. Su quest’ultimo, Evola ha espresso parole significative in Rivolta contro il mondo moderno: “Il padre era appunto il sacerdote virile del fuoco sacro familiare, epperò colui che per i suoi figli, i suoi congiunti e i suoi servi doveva apparire come un ‘eroe’, come il mediatore naturale di ogni rapporto efficace col sovrasensibile, come il vivificatore per eccellenza della mistica forza del rito nella sostanza del fuoco […]. Manifestazione della componente ‘regale’ della sua famiglia quale ‘signore della lancia e del sacrificio’, soprattutto nel pater si incentrava il compito di non lasciar ‘spegnere il fuoco’, nel senso di riprodurre, continuare e alimentare la mistica vittoria dell’avo”.
La parola chiave è appunto “eroe”. In un articolo apparso su Fedeltà Monarchica nell’aprile 1970, Evola proponeva per l’appunto la “famiglia quale unità eroica”. “Non molli sentimenti o sociali convenzionalismi, ma qualcosa fra l’eroico e il mistico fondava dunque la solidarietà del gruppo familiare o gentilizio, facendone una sola cosa secondo rapporti di partecipazione e di virile dedizione, pronta ad insorgere compatta contro chi la ledesse o ne offendesse la dignità”, scrive Evola. Si tratterebbe, quindi, di dare alla famiglia un senso trascendente, super-individuale, non sentimentale o naturalistico: “Un fondamento eroico è quello che può dare la più alta giustificazione alla famiglia. Comprendere che l’individualismo non è una forza, ma una rinuncia. Nel sangue, riconoscere una salda base. Articolare e personalizzare questa base con forze di obbedienza e di comando, di dedizione, di affermazione, di tradizione e di solidarietà diremmo persino guerriera e, infine, con forze di intima trasfigurazione. Solo allora la famiglia tornerà ad essere una cosa vivente e possente, cellula prima ed essenziale per quel più alto organismo, che è lo stesso Stato”.
Adriano Scianca
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A parte che non trovo nulla di degradante nell’essere coccoloso e amorevole con la mia lei – sentimentalismo – anche perché ho a che fare con una donna, mica con un macho; ma poi non capisco come possa essere la monogamia una rinuncia degradante al proprio Io e la fedeltà alla stirpe invece no, anzi una sua esaltazione. Non sono entrambi convenzioni, e sottomissioni del proprio Io ad una struttura ritenuta (dall’Io) superiore ad esso? Dunque cosa cambia? Il valore? Perché dovrei dare valore all’eroismo invece che all’amore? Anche perché, la mia famiglia la difendo proprio perché la amo, quindi palle e cuore vanno a braccetto. Insomma… mi sembra un bel cortocircuito tutto questo.
Vorrei anche far notare che il concetto di Natura non è affatto traballante e non concerne la monogamia, che è un’istituzione sociale, e nemmeno la famiglia “finché morte non vi separi” in sé e per sé. Lo si confonde spesso con ambiente naturale, ma l’ambiente naturale è l’insieme di fenomeni che accadono spontaneamente (non prodotti da un agente individuabile, ovvero non artificiali e perciò naturali) nell’ambito della realtà. Chiaramente può accadere di tutto nella realtà, quindi due uomini come due oranghi possono incularsi. La Natura però non è questo insieme di eventi possibili, piuttosto è quella legge deducibile dai rapporti di continuità tra i fenomeni naturali per cui dico naturale ciò che permette ai fenomeni stessi di continuare ad esistere secondo causalità.
Ovvero: esiste l’evento o il fattore uomo; gli uomini possono continuare ad esistere nelle loro unità individuabili e come specie perché possono riprodursi, cioè continuare ad accadere, a manifestarsi; il loro modo intrinseco di riprodursi è quello sessuato, cioè l’accoppiamento di due individui uno dei quali è il fecondatore l’altro è il generatore, in grado di generare prole più numerosa del numero dei genitori per far fronte alla sopravvivenza della specie in senso geometrico (moltiplicazione degli individui).
Ergo, per noi esseri umani, un matrimonio tra individui dello stesso sesso è contro natura e anche contro civiltà in quanto è sterile. Abbiamo due sessi per questo, per riprodurci sessuatamente tra individui opposti. Perché lo Stato o la Chiesa dovrebbe celebrare una famiglia sterile per legge naturale? Non si moltiplicheranno gli individui, per quanto questo possa succedere nell’insieme degli eventi e questi accoppiamenti sterili siano un’esigua minoranza, sarebbe solo un’assurdità. Questa celebrazione non è un diritto.
Perché non è la Natura a far sì che vi siano gli enti, la natura è la legge posta nell’esistenza che permette agli enti in quanto unità individuabili di continuare ad esistere nonostante la loro finitezza grazie a delle modalità di riproduzione. Anche per quanto riguarda i sassi! Poi può accadere l’impossibile, la chimera, ma è sterile, altrimenti sarebbe la norma. E infatti qualsiasi chimera è totalmente minoritaria, altrimenti salterebbe l’universo per aria. L’universo è ordinato, è un fatto. Natura è Ordine, in ultimo. E Vita per i viventi.
Di questi tempi di eroico è rimasto ben poco.Eroica, molto banalmente , è la voglia di costruirsi una famiglia senza aiuti di chicchessia.Eroica è la follia di programmare con la controparte il resto della vita, resistendo alle difficoltà, alle delusioni ecc ecc con la speranza consapevole di procreare al di là degli aspetti normativi. Eroica e visionaria è la consapevolezza che senza progenie non vi è futuro per nessuno, neanche per l’Evola di turno. Allorquando avrò superato tutti quegli ostacoli, esterni e non, che la vita in comune comporta potrò, con soddisfazione , definirmi facente parte di una elite che ha cercato, nel suo piccolo, di contrastare la cialtroneria della maggioranza
Mi associo al suo commento.
“Stirpe…fare dei figli significava allora conservare e tramandare nel tempo la forza mistica del proprio sangue”
Assomiglia all’ebraismo, la discendenza da un capostipite comune Abramo, dove si evita la mescolanza di sangue, escludendo tutto e tutti (vedi Israele, Stato basato sulla consanguineità.) Quando Roma nella suprema indifferenza alla purezza razziale, con un Romolo senza sposa ne donna, partecipa al ratto delle Sabine, un saccheggio/stupro dove inizia la prima incorporazione di genti diverse, i Sabini. Roma integratrice tramite incorporazione di diverse tribù, dove continua in seguito con gli etruschi, sanniti, razze e lingue diverse, un impero più tardi che integrerà etnie e culture diverse molto distanti tra loro, persino ostili tra loro:egizi, germani, sciti, daci, dove si mantengono comunque unità culturali, etniche distinte, solo le associa al suo progetto politico.Questa è Roma.
Versione decisamente semplificata della romanità. A parte l’autoctonia greca (che è cosa ben diversa dal matrilinearismo ebraico), come esempio di radicamento nella terra e nel sangue, Roma non ha mai ‘integrato’ per così dire ‘a prescindere’, in nome di principi astratti e universalistici da applicare a chiunque e sempre. Ad esempio solo a seguito di una guerra sanguinosissima e solo nel I secolo a.c. gli Italici hanno ottenuto la cittadinanza romana. Gli altri hanno dovuto aspettare quasi altri tre secoli.
Poi mi sembra che il modello ‘integrazionista’ abbia fallito con gli ebrei.
E certo la cultura e la religione punica non mi pare abbiano avuto particolari riconoscimenti (le divinità puniche ad es. sono state forse inglobate nel pantheon romano?).
Lo stesso discorso vale col druidismo.
Il druidismo infatti è stato sostanzialmente soppresso, se non ricordo male per il fatto che facesse ancora sacrifici umani cruenti, fra cui roghi umani di massa in grandi pupazzi di legno e vimini, quando greci e romani avevano smesso di farlo dalla fine della preistoria.
Giovanni Damiano…”Autoctonia greca” il radicamento non basta e infatti Atene nonostante il prestigio non seppe nazionalizzare e non creò un impero, e anche se tutto il mediterraneo orientale parlava il greco l’unità linguistica non fù un fattore unificante. Rimasero città-stato.
Roma con il suo “sinoykismos”, l’idea di villaggi e tribù diversi che vanno a vivere assieme è un vasto sistema di incorporazioni. E fin da subito! si fusero con i sabini. Hanno potuto dominare un vastissimo impero con relativamente pochi soldati (quelli che gli americani avevano in Iraq).Questo perchè è stato il più grande sistema d’integrazione di nazioni diverse, con suo sistema costituzionale di Assemblea e Senato costruì dedizione e fedeltà nei suoi cittadini/legionari, sparsi in tutto l’impero, questo perchè Roma è stato il grande sistema d’integrazione di nazioni/popoli diversi(gentes) su base giuridica superiore. Ha dato al mondo il diritto come principio universale, anche agli stranieri avevano diritti:jus gentium. E in più una grande architettura e ingegneria civile mai viste prima che hanno elevato la vita delle diverse popolazioni/tribù etniche. In pratica un vero “sistema civilizzatore” che nulla a che vedere con il sangue e la razza che per sua natura esclude gli altri. Con gli Ebrei come scrivi giustamente questo non avvenne. Lo scontro tra Cartagine e Roma fù come una guerra mondiale di quel tempo, due filosofie opposte che si scontrano; i Cartaginesi anche se più antichi erano retti da una oligarchia mercantile impassibili ad ogni mutamento sociale, esclusivi impenetrabili, calcolatori, superstiziosi con l’idea che le colonie fossero luoghi di sfruttamento estranei alla guerra si affidavano ai mercenari, ebbero la fortuna di avere un Annibale un carismatico, acuto, imprevedibile, un naturaliter, un dittatore, come un Napoleone brillante condottiero. La sua potenza era quasi tutta fondata sull’influenza personale, indifferente all’autorità Cartagine non lo amava. Roma invece legalitaria, inclusiva, pratica ha invece una forza che derivante da una stretta associazione di uomini riuniti in una società dalla forte ossatura politica. Il potere dell’Assemblea e Senato e la dedizione dei suoi cittadini legionari che civilizzavano popoli diversi rendendoli partecipi di obbiettivi comuni.
Cone già ricordato sopra i romani combatterono una durissima guerra contro gli italici per non concedergli la cittadinanza (preceduta da scontri tra il patriziato e la plebe per non dare diritti politici a questi ultimi) e fu solo il colpo di stato militare di Settimio Severo, un generale non italico ad aprire la strada alla concessione della cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell’Impero all’inizio del III° secolo, ovvero nella fase decadente della storia romana, dopo che per secoli l’avevano concessa col contagocce a singoli individui ed avevano nel frattempo impiantato numerose colonie di italici nelle province conquistate.
Ho dimenticato di scrivere che la cittadinanza fu concessa dal figlio di Settimio, Caracalla: mezzo gallo e mezzo nordafricano.
Articolo straordinariamente chiaro, senza cortocircuiti di sorta….Adriano sempre più grande!