Milano, 8 ott – Meglio finire in mani straniere che in quelle delle coop. E’ questo il lascito di Bernardo Caprotti, fondatore di Esselunga, messo nero su bianco nel testamento aperto in questi giorni. La morte dell’imprenditore non interrompe quindi la sua storica guerra contro i colossi della cooperazione, lotta a tutto campo che dall’ambito commerciale era arrivata a toccare anche la politica.
“Esselunga è troppo pesante condurla e pesantissimo possederla”, si legge nel testamento, che lascia la proprietà della catena di supermercati a moglie e alla figlia Marina, di fatto esautorando il rampollo Giuseppe, da tempo in conflitto – anche giudiziario – con il padre. “L’azienda – continua il documento, redatto nel 2014 – è diventata attrattiva. Però è a rischio”. Occorre, continua Caprotti, “trovarle, quando i pessimi tempi italiani fossero migliorati, una collocazione internazionale“. Niente è lasciato al caso, anche il soggetto papabile. Si era parlato, in passato, della britannica Tesco, che però non viene menzionata. Il fu patron indica l’olandese Ahold come “ideale”, escludendo invece l’iberica Mercadona. Ahold, fresca dell’integrazione con la belga Delhaize, è un colosso da 6.500 punti vendita sparsi in 11 paesi, che occupa qualcosa come 375.000 dipendenti. Viste le differenze, se davvero dovesse essere Ahold Delhaize, più che una fusione rischia di diventare una vera e propria cannibalizzazione del marchio italiano. L’ennesimo che finirebbe in mani straniere.
Perché questa forse tensione verso l’individuazione di un acquirente oltreconfine per Esselunga? “Attenzione: privata, italiana, soggetta ad attacchi, può diventare Coop. Questo non deve succedere“, scrive Caprotti nell’ultima pagina del testamento. Una sorta di sigillo, un marchio di fabbrica per chi contro la distribuzione (e la concorrenza sleale) delle coop ha combattuto, pur ricorrendo anche a metodi non ortodossi, per una vita.
Filippo Burla