Roma, 6 mar – Avevamo avuto modo qualche mese fa di trattare la vicenda del generale Giulio Martinat, caduto durante la battaglia di Nikolaevka il 26 gennaio 1942. Incitando i propri soldati cadeva sotto i colpi nemici in un gesto di estremo eroismo. Durante quella battaglia persero la vita anche altri importanti soldati. Uno di questi era Donato Briscese.
Una dura infanzia
Donato Briscese nacque a Venosa, in provincia di Potenza, il 7 aprile 1918. Il giovane frequentò la scuola elementare ma non terminò nemmeno l’istruzione obbligatoria. Terminata la quarta elementare, infatti, lasciò la scuola e venne mandato dai genitori a lavorare in cava. Il 18 agosto 1938 venne inquadrato come soldato semplice nel Regio Esercito ed, il 30 marzo 1939, fu assegnato al 2° Reggimento di Piacenza.
Pochi mesi prima dell’entrata in guerra dell’Italia, venne assegnato al I Battaglione dell’Armata Po e posto a difesa del fronte occidentale.
Il soldato rimase al fronte fino all’Armistizio di Villa Incisa che sancì il suo ritorno in Patria. Seppur, per breve tempo. Nel luglio 1941, infatti, il caporale Donato Briscese venne assegnato al comando del tenente colonnello Evasio Biandrate, pronto a partire per la Russia a fianco dell’alleato tedesco.
La guerra in Russia
Il reparto di Briscese venne, innanzitutto, impiegato nella ricostruzione di un ponte distrutto dall’Armata Rossa in ritirata. Durante un’avanzata dell’Asse, però, i russi attaccarono dal cielo i soldati italo-tedeschi annientando l’intero battaglione.
L’esempio del soldato finì il 20 febbraio 1942 quando, nei pressi di Nikolaevka, venne ucciso dai nemici sovietici. In suo onore gli fu concessa una medaglia d’oro al valor militare: “Pontiere caposquadra mitraglieri, in aspro combattimento contro rilevanti forze, portava i dipendenti con ardita decisione all’attacco, infliggendo gravi perdite al nemico. Caduti alcuni serventi, benché ferito una prima volta, rimaneva al proprio posto incitando i suoi uomini alla resistenza ed assicurando l’efficace fuoco dell’arma. Ferito una seconda volta al capo da una scheggia di mortaio, cosciente della critica situazione per la grave minaccia nemica, rifiutava ogni cura e continuava audacemente la lotta. Rimasta l’arma inutilizzabile, si poneva alla testa dei superstiti e cercava ancora di arrestare il nemico con lancio di bombe a mano, finché colpito a morte da raffica di mitragliatrice, immolava la propria vita, fiero di avere contrastato il passo al nemico prodigandosi oltre gli umani limiti del dovere”.
Tommaso Lunardi
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