Roma, 8 lug – In Francia Macron ha resettato la maggioranza e si appresta a costruire la successione a fine mandato. Ha compiuto l’ennesimo capolavoro machiavellico utilizzando come sempre Marine per sgabello. Lo ha fatto scientemente perché non aveva alcun motivo per sciogliere il Parlamento dopo le europee che hanno rispettato i sondaggi noti da un anno, con la variante di un punto e mezzo di più proprio ai macroniani dopo le forti posizioni sull’Ucraìna.
“Re Macron” e la successione
Ora Macron ha davanti a sé tutte le strade possibili. Dal solito governo di minoranza ma con poteri presidenziali, all’alleanza sinistra-centro, fino al governo di larghe intese o a quello della destra macroniana (Edouard Philippe) più i repubblicani e con astensione Rn. In quanto a quella sinistra che avrebbe vinto di misura, si consideri che è una coalizione di coalizioni in cui i moderati sono prevalenti e che, così come a destra i repubblicani, governano con i centristi in diverse amministrazioni. Peraltro almeno due figure di punta su tre (Gluksmann e Hollande) sono di fatto del campo presidenziale. Non si può parlare di sorpresa. Chi mi abbia seguito su noreporter.org e sui social sa che lo affermo dal primo giorno di campagna.
Le deficienze del Rassemblement national
Qualche considerazione sul trionfo e la disfatta dell’Rn è d’uopo. Abbandoniamo la retorica del tradimento del voto popolare. Al primo turno 33%, un elettore su tre. Se anziché vigere la V Repubblica con le sue regole che assicurano stabilità e sovranità, ci fosse la solita democrazia parlamentare delle repubblichette bananiere con il suo stucchevole proporzionale assoluto, avrebbe eletto 192 deputati invece di 143. Trombati a parte, questo non avrebbe cambiato in nulla il quadro politico successivo. Sarebbe rimasta la prima forza d’opposizione. Perché la marea si è arrestata? Probabilmente per un atavico malinteso di fondo che attanaglia la destra popolare francese. Un problema condiviso un po’ da tutti i populismi di destra e di sinistra che assomigliano terribilmente al socialismo di un secolo fa e poco più.
Essi sono portati dall’onda di un malessere di alcuni ceti (per il populismo sono i cosiddetti “perdenti della globalizzazione”). Certi che l’élite mondiale crollerà, come allora erano certi dell’imminente fine del capitalismo, i populisti incappano sempre nel massimalismo che è demagogico e inconcludente, tanto sono certi della vittoria. Che allora veniva identificata nello sciopero generale e ora nel trionfo elettorale, come se si potesse governare una nazione senza strutture pregresse, senza alleanze economiche, senza amministrazioni amiche e senza una conoscenza delle meccaniche internazionali.
Quand’anche l’onda arrivasse al culmine si avrebbe un circo giallo-verde alla Conte-Salvini e tutto franerebbe nell’inconsistenza e nell’incompetenza. Poco più di un secolo fa i socialisti avevano la maggioranza ovunque ma si spaccarono i denti. Serve una linea che non sia massimalista, demagogica e attendistica. Quel socialismo si divise in tre tronconi: uno rivoluzionario (che in concreto però era reazionario) tramite Lenin, uno riformista (la socialdemocrazia di scuola tedesca) e un terzo riformista-rivoluzionario inventato da Mussolini.
Inconsistenza e finto riformismo
Il riformismo in Italia, che piaccia o meno, c’è e mette assieme vari partiti di destra i quali condividono tutti, Forza Italia compresa, i soli punti chiari dell’RN che sono il timore dell’islamismo, dell’immigrazione selvaggia e del disordine sociale.
Ma a parte il fatto che hanno delle riforme concrete in testa e sul tavolo (dalla magistratura al premierato, passando per la regolamentazione del regionalismo), hanno anche delle linee estere abbastanza chiare e multilaterali.
E godono di un pregresso, tra cui almeno tre quotidiani e due sindacati (ci metto pure la Cisl) oltre a una cultura del governo. Tutto questo all’Rn manca.
Il programma economico è così ridicolo e grottesco da chiedersi se non glielo abbia dettato Macron. Industriali, imprenditori e risparmiatori sono saltati sulla sedia. Marine & co sono fiduciosi nell’onda che salirà e non sembrano preoccuparsi di assumere una linea politica di qualunque genere. Non riformista, visto che non sono riusciti a instaurare alcun genere di dialogo costruttivo, non rivoluzionario (per carità!), giusto massimalista ma non radicale. Cioè il nulla.
Lo strappo nel 2015 con Jean-Marie Le Pen a livello gestionale si paga ancora.
L’ossessione dell’accettazione è diventata grottesca. Come se davvero questa fosse la molla per essere votati, quando i più degli elettori non sanno neppure che posizioni vengono prese. Facciamo gli esempi più eclatanti. Non è bastato votare in maggioranza per l’aborto in Costituzione per non essere tacciati di negatori dei diritti delle donne. Non è stato sufficiente il regno dei gays e dei gay friendly attorno a Marine perché l’ultimo gay pride non sia stato più affollato di sempre per paura che venissero tolti i diritti omosessuali. Non è bastato sfilare alle manifestazioni contro l’antisemitismo scortati dal Betar (l’associazione paramilitare ebraica), dichiararsi incondizionatamente con Israele, consegnare un riconoscimento ai Karlsfled, cacciatori di nazisti, e incassare il loro sostegno, per non essere comunemente considerati antisemiti. Non è servito a nulla precedere Darmanin nella richiesta dello scioglimento del Gruppo Universitario GUD per non essere presi per fascisti.
Avessero letto Mitterrand, non dico Jean-Marie, avrebbero saputo che tutto questo in Francia è controproducente. E magari, anziché agitarsi per dimostrare cosa non sono avrebbero provato a essere qualcosa. Ora devono assumere di corsa una logica riformista e assumere un’identità. Perché la sola che hanno per il momento è per difetto, è il non-essere al governo.
Possono trasformarsi, come necessario, in radicali e riformisti? Sarebbe un ritorno a Jean-Marie, ma senza di lui. Possibile? Non so, ma la Nemesi è impietosa e ieri ha presentato il conto.
Gabriele Adinolfi