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“Eden” di Ron Howard: l’uomo, la natura e il tormento della civiltà

by Sergio Filacchioni
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Eden

Roma, 15 apr – C’è un’innegabile novità nel fatto che Eden sia stato diretto da Ron Howard. Regista che, secondo tutti i parametri razionali – incassi, premi, longevità – ha avuto una delle carriere più celebrate della storia di Hollywood. Una novità perchè nonostante gli sia stata cucita addosso l’etichetta del regista “per famiglie”, Eden rompe con tutto questo, e lo fa con una brutalità sorprendente.

Eden è un super-classico

Tratto da eventi reali – il tentativo di tre gruppi europei di colonizzare l’isola disabitata di Floreana, al largo delle Galápagos, negli anni Trenta – è un film che pare non aver nulla a che fare con l’autore di Apollo 13. Eppure, proprio per questo, è probabilmente il suo lavoro più sincero, decisamente il più “classico dei classici”: in effetti, sembra uscito direttamente dalla mente di Stevenson o Hamsun. Ma non per questo rinuncia alla cruda verità: il lieto fine, i buoni sentimenti, perfino il pudore vengono lasciati fuori dal film. La nudità è totale, non solo dei corpi ma delle coscienze. L’isola, fotografata con occhio iper-realistico (in realtà girata nel Queensland), è un Eden solo di nome: gli animali si divorano tra loro, le ossa emergono dalla sabbia, la natura ripete sé stessa in un ciclo infinito di morte e rinascita. Il film, che si apre con l’audio della voce di Hitler sovrapposta a titoli che segnalano l’ascesa del fascismo, è una scelta troppo incline all’ovvio, che sulle primissime batture fa temere il peggio. Invece Eden sorprende: la storia non è una parabola moralista sull’Europa in fuga dai totalitarismi, anzi mette in scena una sorta di esperimento antropologico degenerato, in cui l’uomo – spogliato di tutto – si ritrova a combattere per la propria sopravvivenza in uno stato di natura che Hobbes non avrebbe esitato a definire “bellum omnium contra omnes”. Più che la fuga dal Fascismo, il film sembra volerci parlare del brusco risveglio dell’uomo occidentale dai bei sogni della ragione: diritti naturali, valori universali, morale egualitaria.

Gli uomini messi a nudo

Friedrich Ritter (Jude Law), è il prototipo del filosofo tedesco affetto da hybris nietzschiana, l’anti-eroe perfetto: autoritario, sdegnoso, predicatore di una moralità inflessibile che crolla al primo contatto con il potere. La sua compagna, Dore Strauch (Vanessa Kirby), è elegante e tragica, prigioniera di un’utopia che la consuma. L’arrivo dei Wittmer (Daniel Brühl e una sorprendente Sydney Sweeney) a Floreana, in fuga dalla crisi economica tedesca ma sulla scia della notorietà acquisita da Ritter nei salotti europei introduce il fattore umano. Non idealisti né visionari, ma borghesi che tornano a vestire i panni dell’archetipo europeo per eccellenza: i coloni in cerca di un pezzo di terra su cui vivere. E infine la baronessa Eloise Bosquet de Wagner Wehrhorn (Ana de Armas), caricatura decadente dell’élite europea, frivola, manipolatrice, magnetica ma tragicamente inconsistente. Questi personaggi, spinti da motivazioni apparentemente diverse, finiscono per assomigliarsi nel momento in cui la scarsità delle risorse li costringe a mostrare la loro vera natura. La baronessa non sa coltivare nulla; Friedrich, che doveva “salvare il mondo dai suoi impulsi oscuri”, si scopre incapace di domare i propri. Solo chi accetta la dimensione concreta, corporea, animale della sopravvivenza – come Heinz e Margret Wittmer – riesce a sopravvivere, o almeno a resistere più a lungo.

L’importanza del clan

È forse qui che il film lascia intravedere la sua tesi più forte e, nel panorama culturale odierno, anche la più controcorrente: la salvezza, se esiste, non passa né per l’utopia solitaria del filosofo né per l’individualismo narcisista della baronessa, ma per un nucleo primordiale e antico, che oggi si ha quasi timore a nominare: la famiglia. Non la famiglia nel senso giuridico o moralista, ma come comunità organica, vincolata dal sangue e da uno scopo condiviso. Di tutte le istituzioni che il pensiero progressista ha accusato – e continua ad accusare – di essere artificiali, oppressive, “costruite”, Eden sembra dirci che nulla è più reale, più essenziale, più naturale del clan. Non esiste ritorno alla natura che non passi attraverso una forma di appartenenza concreta. Altro che “rewilding” alla moda o fughe individuali nella wilderness: senza legami, senza discendenza, senza trasmissione, ogni sogno di libertà finisce per diventare una caricatura o, peggio, un’agonia. E così, quasi suo malgrado, Howard finisce per toccare un punto nodale: la famiglia, vilipesa e ridicolizzata da decenni di decostruzione ideologica, riappare come l’ultima difesa dell’umano contro il caos. Non una nostalgia passatista, ma un riconoscimento istintivo. Quando tutto crolla, quando la natura si prende la scena, ciò che resta è il legame di sangue e la volontà di proteggerlo. Il clan non è una convenzione: è il destino di chi non vuole scomparire nel vortice.

Non c’è civiltà fuori dalla storia

Sweeney, scelta inizialmente discutibile per il ruolo di una donna tedesca degli anni Trenta, risulta perfettamente credibile proprio per la sua fisicità moderna: il suo corpo trasmette dolore, fame, maternità, terrore. In una scena di parto sotto assedio – fra cani selvatici e saccheggiatori – il film tocca uno dei suoi vertici di crudezza simbolica. È lì, nel sangue e nel panico, che si manifesta la vera tensione dell’opera: non la lotta tra bene e male, ma quella tra cultura e natura. E la natura vince, sempre. Non c’è spazio per la redenzione e il paradiso. La lotta si fa corpo a corpo, le armi sono rudimentali, gli scontri avvengono nel fango e i coltelli si affondano nella carne. Howard rinuncia a ogni forma di catarsi: l’epilogo è punitivo, quasi sadico, come se volesse punire i personaggi per aver creduto di poter reinventare la civiltà fuori dalla storia. Ma Eden non è solo un dramma di sopravvivenza. È una riflessione tagliente – e raramente così lucida nel cinema contemporaneo – sull’illusione dell’uomo moderno di poter sfuggire alla propria natura. La libertà non è nell’evasione, ma nel riconoscimento dei propri limiti. La civiltà, se non radicata nel reale, è solo un costrutto fragile, pronto a frantumarsi al primo urto. Howard, con uno stile spogliato di retorica, mette da parte il desiderio di piacere e firma un film che non consola, non edifica, non insegna. Come Fitzcarraldo, osserva il tormento della civiltà che si illude di poter imporsi sulla natura, trascinando sulle spalle i propri ideali come un battello nel fango. Ma dove Herzog celebrava la follia visionaria dell’eroe romantico, Howard sembra più disilluso: sa che quel battello, prima o poi, affonderà.

Sergio Filacchioni

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