Roma, 16 gen – Il peggiore inizio anno per l’economia globale dal secondo conflitto mondiale, praticamente sotto tutti gli aspetti e gli indici importanti. Gli indici azionari non sono mai calati così tanto: dell’11% quello medio ponderato europeo (Stoxx600), dell’8% lo Standard & Poor’s (SP 500) statunitense, l’indice cinese di Shanghai di oltre il 17%. La curva del volume del commercio mondiale, rappresentata tra gli altri dal Baltic Dry Index (BDI), punta verso l’abisso, toccando ogni giorno livelli più bassi e ormai da inizio anno stabilmente al di sotto del minimo storico da oltre 30 anni a questa parte: la domanda globale continua la sua corsa all’indietro.
Il prezzo del petrolio ha sfondato al ribasso, senza resistenze, la soglia psicologica dei 30 dollari al barile, tornando ai livelli del 2002-2003, ma la corsa alla difesa delle quote di mercato e quindi agli sconti nelle specifiche transazioni – tra le altre cose – ha determinato ulteriori diffusi ribassi, tanto che il prezzo reale è stimato sotto i 26 dollari. Particolarmente penalizzato il petrolio leggero saudita (utilizzato in gran parte per fare benzina): in termini di dollari americani – valuta nel quale è scambiato – e, corretto per gli effetti dell’inflazione, vale in realtà appena 17 dollari, puntando verso i minimi dello scorso fine secolo. Lontanissimo da quei 100 dollari che sarebbero necessari per bilanciare le voracissime casse della petromonarchia.
Il bitume canadese, estratto dalle sabbie dell’Alberta e che necessita raffinazioni particolarmente costose, è scambiato sotto i 10 dollari al barile, e il Canada stesso si trova improvvisamente ad affrontare una recessione inattesa e pesantissima, nella buona compagnia di Stati che sulla ricchezza petrolifera avevano costruito il proprio straripante benessere, dalla Norvegia fino a tutto il medio oriente e alla stessa Russia. Con la differenza non da poco che Mosca ha almeno puntato alla diversificazione produttiva e conservato una certa sobrietà dello stato sociale grazie al livello di consenso interno di cui nessun altro paese produttore può anche lontanamente godere.
L’evidenza, poi, che la produzione per il momento sia stagnante o soltanto in leggera diminuzione è dovuta all’aumento record delle scorte in Cina e negli Stati Uniti, costruite sui bassi prezzi ma ormai al limite della capacità, e al fatto che la maggior parte dei costi sono stati giù sostenuti nelle fasi di esplorazione e costruzione degli impianti di estrazione, per cui i produttori continuano a estrarre anche in perdita sperando (vanamente?) in un futuro rialzo delle quotazioni.
Gli ultimi dati sulla produzione manifatturiera Usa segnalano un ribasso anno su anno che nemmeno i più sofisticati trucchi statistici riescono ormai a nascondere. Come del resto è tornata a scendere, in novembre, la produzione industriale italiana, come tra varie penose cortine fumogene è stata costretta ad ammettere l’Istat, sbugiardando per l’ennesima volta la coppia di illusionisti Renzi-Padoan.
Lo schema Ponzi, costruito in forma di una gigantesca bolla di debito non più sostenuta dai fondamentali dell’economia mondiale reale, pare insomma essersi avviata al collasso sotto i nostri occhi. Per dirla con le parole di analisti ormai noti ai lettori di questo giornale, come Gail Tverberg e Dmitry Orlov, il più grande esperimento economico della storia – la globalizzazione della produzione, del commercio e della finanza – si è scontrato con i limiti delle risorse disponibili. Tradotto, con il costo crescente di estrazione e trasformazione di quasi tutte le risorse disponibili, in prima linea il petrolio stesso. Qualcosa che nessuna banca centrale può arginare stampando moneta dal nulla.
Tutto il resto è poco più di un ventaglio di conseguenze, dalle guerre – finora regionali – all’immigrazione verso i paradisi sociali (Europa in primis per ragioni geografiche), alla compressione delle retribuzioni a parità di lavoro svolto, alla creazione di posti di lavoro più dequalificati dei precedenti. L’Europa, come si è scritto su queste colonne, potrebbe ancora riuscire quanto meno a limitare i danni, purché nell’ordine reagisca con tutti i mezzi all’invasione allogena dequalificata e recida i propri legami esclusivi con gli Stati Uniti volgendosi ad est: svolte semplicemente impossibili con le classi dirigenti correntemente al potere. Ciascuno tragga le proprie conclusioni sui compiti che attendono le forze sovraniste e patriottiche d’Europa.
Francesco Meneguzzo
2 comments
non solo allontanarsi dagli Usa, ma anche da quella vassalla Germania che pare aver rubato quel ruolo storico alla mai europea Inghilterra.
Verissimo.