Roma, 7 nov – A smentire le clamorose balle del governo sulla disoccupazione ci ha pensato lo stesso Istat, un ente in palese conflitto d’interessi con lo finanzia, che comunque ha registrato una situazione tutt’altro che rosea.
Al netto delle sparate renziane e delle elemosine pre-referendum, quello che forse continua a sfuggire nel dibattito pubblico è la portata anche e soprattutto economica della disoccupazione di massa. Viviamo in un’epoca in cui l’ossessione per lo spreco è diventata una sorta di patologia psichiatrica di massa, al punto da avallare comportamenti spesso umilianti come la raccolta differenziata, e non ci rendiamo nemmeno conto che se esiste uno spreco folle al mondo è precisamente quello della disoccupazione. In effetti, non può esistere uno spreco peggiore di tenere inoccupate persone potenzialmente produttive. Ogni disoccupato costa non solo perché è a carico della collettività, ma anche e soprattutto perché la sua produzione potenziale è persa. Quando la disoccupazione è di massa, come nel caso attuale dei paesi dell’eurozona, essa diventa il principale costo dell’economia. Non le escort dei politici, non le auto blu, non le balle grilline sui “costi della politica”.
Nel 1945, sul finire della seconda guerra mondiale, uno dei principali collaboratori di Roosevelt, Henry Wallace, elaborò un calcolo della ricchezza persa a causa della disoccupazione seguita alla Grande Crisi del 1929 quantificandola nella perdita secca di 350 miliardi di dollari, equivalenti a due volte l’intera produzione industriale del 1942. Il ragionamento per le politiche economiche post-belliche di Wallace era in fondo semplice: bisognava garantire, in assenza di mobilitazione bellica, un lavoro al 50% della popolazione americana, percentuale raggiunta prima del 1929. Inoltre, la maggior parte di questi posti di lavoro sarebbe dovuta venire dal settore manifatturiero, spina dorsale di un’economia moderna ed unico settore capace di espandersi in modo potenzialmente illimitato. Quello che occorre notare, tornando quindi al caso italiano, è che se all’epoca il governo federale americano aveva potenzialmente tutti gli strumenti per attuare un serio programma di piena occupazione (che poi non l’abbia portato a termine è un altro discorso), mentre un eventuale governo italiano interessato a risolvere seriamente il problema no.
A partire dal 1992 è iniziata la sottomissione dell’Europa al Trattato di Maastricht, concepito per sottoporre le diverse nazioni ad una idiota disciplina di bilancio fatta di automatismi e regole predeterminate. Su questa questione occorre essere chiari: il dibattito non è su “euro si” “euro no”, ma occorre convenire sulla necessità di disporre di una moneta con cui uno stato sovrano può varare piani di sviluppo. In altre parole, abbandonare l’eurozona è solo il primo passo, necessario ma non sufficiente, per addivenire alla piena occupazione.
La Banca d’Italia dovrà nuovamente essere subordinata al potere politico, e fungere da erogatrice di finanziamenti pari a centinaia di miliardi di attuali euro all’anno per progetti infrastrutturali di lungo periodo e per la ricerca di base, mirante quindi ad accrescere la produttività complessiva dell’economia nazionale. In secondo luogo, il sistema del credito, nel suo complesso, dovrà essere direttamente o indirettamente orientato all’esclusivo servizio alle imprese, ad esempio nazionalizzando le banche maggiori e regolamentando strettamente quelle minori lungo le linee guida della gloriosa legge bancaria del ’36. In terzo luogo, bisognerà ripensare il ruolo dell’Italia all’interno di un mutato contesto geopolitico, in associazione al progetto cinese della Nuova Via della Seta, ovvero le reti di trasporti di nuova generazione che uniranno il continente euroasiatico per la prima volta nella Storia, bypassando la necessità del costosissimo ed inefficiente trasporto via mare delle merci. Sia detto di passata, il progetto russo-cinese rappresenta storicamente l’incubo dei britannici prima e degli americani poi: un territorio immenso non controllabile con le cannoniere, men che meno con i droni che tanto piacciono ad Obama. Si può quindi capire quale è la reale posta in gioco: non solo economica, ma anche e soprattutto di posizionamento geopolitico, senza il quale non potremo mai sperare di risolvere i nostri problemi.
Matteo Rovatti
1 commento
Che ridere che mi ha fatto con la battuta sugli ossessionati per lo spreco … poi ci sono anche quegli altri malati psichiatrici, quelli che blaterano di decrescita felice e puttanate simili … che sia la stessa patologia?