Roma, 13 mar – Alla domanda su quale sia la concezione religiosa di Giovanni Gentile non è agevole rispondere. Nel 1943, in un discorso all’Università di Firenze, il pensatore siciliano si dichiara apertamente cristiano (e «non da oggi», precisa, ma «da quando sono al mondo»). Egli pronuncia così un’autentica professione di fede, che sembra non lasciare dubbi circa la sua affiliazione al cristianesimo (al cristianesimo cattolico, aggiunge, a scanso di equivoci). Quando sono in gioco questioni speculative profonde, però, le soluzioni semplici sono merce rara.
Ecco allora che, alla professione di fede fiorentina, si può opporre ciò che Gentile scrive trent’anni prima, nel Sommario di pedagogia del 1913. Qui, citando il De vera religione di Agostino, egli proclama che invano si cercherebbe la verità fuori dall’uomo. È invece «nell’interno dell’uomo» (l’interiore homine agostiniano) che essa va trovata. E «non pur la verità dell’uomo, ma la verità di ogni cosa». Sorge allora una domanda. Se Gentile, nel discorso del 1943, afferma di essere cristiano (e, giova ribadirlo, cattolico), perché mai nel saggio del 1913 risolveva l’orizzonte del reale nell’umano, precludendosi così l’accesso alla trascendenza divina? Aveva forse cambiato avviso? La risposta al quesito, come vedremo, è negativa.
La forma più rigorosa dello spiritualismo moderno
Gentile, si sa, è il fondatore dell’attualismo. Il quale – si legge nell’Introduzione alla filosofia del 1933 – è «la forma più rigorosa dello spiritualismo moderno», cioè del moderno idealismo. L’idealismo, dal canto suo, è la tendenza a ricondurre la realtà al pensiero quale attributo spirituale tipicamente umano. Una tendenza che assume, nella storia della filosofia, almeno due aspetti. Quello debole di Cartesio, Berkeley e Kant, dubbioso che i contenuti della coscienza (le rappresentazioni) abbiano un’esistenza indipendente dal pensiero che li pensa; e quello forte dell’idealismo tedesco – l’idealismo di Fichte, Schelling ed Hegel – che fa del pensiero (variamente denominato io, idea o spirito) il principio “metafisico” che crea inconsciamente se stesso e la realtà in cui liberamente si opera. Un idealismo, quest’ultimo, che penetrato in Italia nella seconda metà dell’Ottocento tramite Bertrando Spaventa, ha il suo esito speculativamente più ricco nelle filosofie di Benedetto Croce. E, appunto, di Gentile.
“Misticismo” del pensiero e “filosofia delle quattro parole”
Le differenze tra l’idealismo crociano e l’attualismo gentiliano, come è noto, riguardano soprattutto il diverso modo di concepire il principio spirituale. Croce, per esempio, accusa Gentile di scadere nel “misticismo”, nel culto di un pensiero “divinizzato”, nella “mortificazione” della vita dello spirito, giacché ne dissolve la varietà e la ricchezza nel monismo indifferenziato del «Pensare puro, del Pensare in atto a contrasto del Pensiero pensato» (Hegel e l’origine della dialettica, 1948). Gentile, dal canto suo, liquida quella di Croce come “la filosofia delle quattro parole”, alludendo ai quattro “distinti” (arte, logica, economia ed etica) in cui il pensatore abruzzese scompone (per Gentile, depotenziandola) l’attività spirituale. Si tratta, è evidente, di divergenze teoretiche tra due filosofi della stessa “famiglia”; le quali però, tornando al tema che qui interessa, celano una somiglianza di vedute, seppure alquanto parziale, circa il significato della religione e il rapporto di essa con la filosofia.
Croce e la religione “a mani vuote”
Hegel, ispiratore di Croce e Gentile, considera la religione un momento della dialettica spirituale in cui permane la separazione tra uomo e Dio (la “coscienza infelice” del cristianesimo). Quella fase in cui la verità – cioè la derivazione del reale dall’ideale – non si attinge al livello superiore del concetto (come nella filosofia), ma si coglie in quello inferiore della rappresentazione (la figura biblica del Dio creatore). Croce, che al pari di Gentile è erede e al contempo riformatore dell’hegelismo, non si discosta poi troppo dalla traccia del pensatore di Stoccarda.
Lungi dall’essere uno dei “distinti”, la religione è per lui un miscuglio di elementi (estetici, logici, pratico-morali) ricavati da essi. Tutte le religioni, osserva in Hegel e l’origine della dialettica, hanno un «carattere immaginoso» e, in ultima istanza, «si trovano tutte a mani vuote. I rimedi da esse proposti […] scoprono la loro nullità; e quel che rimane è lo stimolo al pensiero […] di sostituire l’invenzione religiosa con l’indagine filosofica». Fin qui, dunque, Croce. Ma Gentile, invece, che ne dice? Qual è, sul rapporto tra filosofia e religione, la sua posizione speculativa?
Il pensiero in atto come sola verità
Nell’Introduzione alla filosofia, Gentile scrive che l’attualismo non concepisce lo spirito come una “sostanza” a sé stante (qual è il Dio della religione), ma lo fa coincidere con il pensiero umano. E precisa: non con «quel pensiero che l’uomo possa o debba pensare», ma con quello «che pensa attualmente, e che è tutto nello stesso atto di pensare». Quest’atto, in cui si realizza l’essenza spirituale dell’uomo, è allora «il solo essere di cui si possa in concreto parlare».
Per Gentile, insomma, l’unica verità è il pensiero umano dinamicamente attuale; il cui oggetto – il mondo – non è in sé reale, ma lo diviene nell’atto stesso del pensiero che lo pensa e che, pensandolo, lo pone quale suo correlativo dialettico: il mondo, creazione spirituale e perciò stesso umana, altro non è infatti che l’agone, il campo di battaglia in cui l’uomo liberamente e moralmente si realizza, votandosi all’auto-perfezionamento e al dovere anti-egoistico verso gli altri (in primis verso i membri della propria comunità nazionale).
Nulla dunque per Gentile, né la natura né la storia, esiste «fuori dell’uomo» (del suo spirito): tutto è «dentro di lui», anche Dio. È un tema radicalmente immanentistico, per cui la religione – separando l’uomo-creatura dal Dio-creatore, e sottomettendo quello a questo – rende lo spirito dimentico della sua essenza, “castrandone” la libertà di plasmare da sé il proprio mondo. Non sorprende allora che una simile filosofia abbia attirato su Gentile la nomea di ateo. Ma ateo, il pensatore siciliano, lo è davvero? O la sua “divinizzazione” dell’umano è frutto di una visione del cristianesimo certo diversa da quella tradizionale, e ciononostante compatibile con essa?
L’unità umano-divina dello spirito
Nell’Introduzione alla filosofia Gentile nota che l’accusa di ateismo è quella «più insistente a cui [l’attualismo] è fatto segno dai pensatori cattolici». Tale accusa, però, egli la respinge con decisione. Per Gentile infatti è possibile, anzi filosoficamente necessaria, la conciliazione dialettica dell’attualismo con la religione, nello specifico con quella religione eminentemente “spirituale” che è il cristianesimo. «Sono convinto che il cristianesimo», sottolinea il pensatore siciliano, «con il suo domma centrale dell’Uomo-Dio abbia questo significato speculativo: che a fondamento della distinzione necessaria tra Dio e l’uomo si debba porre un’unità, la quale non può essere se non l’unità dello spirito; che sarà spirito umano in quanto spirito divino, e sarà spirito divino in quanto pure spirito umano».
Lungi dall’essere ateo, l’attualismo si appropria dunque del “nucleo forte” del cristianesimo: il dogma dell’Incarnazione, filosoficamente interpretato come metafora dell’unità essenziale interna allo spirito. Il quale essendo, come detto, principio di ogni realtà, è al pari di Cristo umano e divino insieme.
Una missione da adempiere «con la lotta e con il martirio»
Gentile si pone così sul terreno, assai hegeliano, di una rilettura idealistica del cristianesimo, secondo cui la filosofia afferma in concetti quell’essenza unitaria dello spirito che la fede invece rappresenta in dogmi; e dove la religione, che aliena l’uomo da Dio, è superata e al contempo “inverata” dalla filosofia, che ricompone tale “frattura” nell’unità umano-divina dello spirito. L’attualismo non nega Dio, proclama enfaticamente Gentile, ma «insieme con i mistici e con gli spiriti più religiosi che sono stati al mondo, ripete: est Deus in nobis».
E lo fa, del resto, in coerenza con i propri corollari etico-politici. Se infatti l’attualismo fosse, ontologicamente, un mero ateismo – nel senso illuministico, materialistico, “prosaico” del termine – non avrebbe senso la vera politica per come esso la intende: che è soprattutto dovere di agire moralmente sul mondo. E ciò perché – scrive Gentile, richiamandosi a Mazzini, nei Profeti del Risorgimento italiano (1923) – «l’idea generale della vita, o dell’uomo, o meglio dello spirito è missione». Una missione che si deve adempiere – religiosamente, si potrebbe dire – «con la lotta» e, se occorre, «con il martirio».
Corrado Soldato