Roma, 6 mar – La possibilità che l’Ue invii un’altra, l’ennesima lettera di richiamo all’Italia sul tema della tenuta dei conti ci offre l’opportunità di ragionare sul tema del debito pubblico. Un problema annoso che ci trasciniamo almeno dalla firma del Patto di Stabilità e crescita, quando cioè furono fissate le note soglie del 3% al deficit e del 60% per il debito.
E qui sorge il primo problema: come vennero decise? “Abbiamo stabilito la cifra del 3 per cento in meno di un’ora. È nata su un tavolo, senza alcuna riflessione teorica“, ammise a suo tempo l’economista francese Guy Abeille, “padre” del tetto alla spesa senza coperture. Analogo discorso per l’altro parametro: “Il livello di indebitamento europeo all’inizio degli anni ’90 era pari a circa il 60% del Pil. La crescita nominale era circa il 5%, e l’inflazione al 2%. In questa situazione i debiti potevano crescere al massimo di un 3 % all’anno, per non superare la soglia del 60%”, ha spiegato Theo Waigel, ex ministro delle Finanze della Germania. Soglie “economicamente difficili da giustificare” è l’opinione dell’ex governatore della Bundesbank Hans Tietmeyer. Se tre indizi fanno una prova, c’è da dire che siamo davanti ad un caso di scelte a casaccio, ma delle quali paghiamo le conseguenze tutti. Non manca infatti giorno che l’Unione Europea non chieda di aggredire l’enorme massa di debito, con scelte (rectius: imposizioni) che variano dall’austerità nei conti pubblici alle privatizzazioni. Misure che, nel tempo, hanno dimostrato la propria fallacia, dato che il debito pubblico non ha smesso di crescere e l’inizio della sua presunta traiettoria discendente viene posticipato di anno in anno. Vediamole nel dettaglio.
Combinato disposto aumento delle tasse/taglio della spesa pubblica. In altre parole: il governo Monti. Il rapporto debito/Pil (cui si riferisce la percentuale del 60%) è appunto… un rapporto, per cui una variazione al ribasso del denominatore comporta l’innalzamento del valore complessivo. Nel nostro caso, la variazione al ribasso è duplice poiché sia l’aumento delle tasse che il taglio della spesa pubblica comprimono il Prodotto interno lordo. Con il risultato che la doppia misura ispirata all’austerità teutonica si rivela in realtà nefasta.
Altra opzione è quella della vendita dei beni di famiglia. Partecipazioni azionarie, proprietà demaniali e chi più ne ha più ne metta. La strada, anche qui, è già stata o sta venendo percorsa. Peccato che sia solo di breve se non brevissimo termine. Per quanto riguarda le società partecipate, ad esempio, si rinuncia in molti casi (specie per le grandi imprese quotate in borsa) ad attività che rendono il oltre il 4% netto mentre il costo medio ponderato del debito pubblico è al 3.7%, valore che scende al di sotto del 2% per quello di breve periodo. Senza stare a disquisire di matematica finanziaria, la differenza è quel che si perde. Discorso analogo, in termini di assurdità, per quanto riguarda le proprietà demaniali. Si parla infatti di cedere quei beni inutilizzati o inutili, ma non sorge l’idea che se sono inutili sarà un tantino difficile piazzarli sul mercato?
Scartiamo l’inflazione, stratagemma che a parità di debito farebbe decrescere indirettamente il suo valore, ipotesi che vista come fumo negli occhi da parte della Bce che non intende salire oltre il 2% – ammesso che riesca a raggiungere questo livello, dato che il Quantitative Easing sta incontrando più di qualche problema. L’unica opportunità rimane allora quella della crescita: come detto, essendo debito/Pil una frazione, aumentando il denominatore e mantenendo il numeratore alterato, sarebbe in qualche modo possibile abbassare l’entità del rapporto. Succede però che l’area euro è una zona valutaria a cambio fisso, con moneta per noi sopravvalutata. Il risultato sarebbe, di conseguenza, che alla crescita del Pil si accompagnerebbe un aumento degli acquisti di prodotti oltreconfine, spedendo in deficit la bilancia commerciale accumulando debito estero. E si ritorna così all’inizio della faccenda, ma a questo punto proverbiali non sono più le soglie, ma il classico cane che si morde la coda.
Filippo Burla