Home » Daspo: quando il poliziotto diventa giudice / L’approfondimento

Daspo: quando il poliziotto diventa giudice / L’approfondimento

by La Redazione
0 commento

chiusoperdasposansevero-statoquotidianoRoma, 5 ott – Il DASPO, più comunemente noto come “diffida”, è un provvedimento amministrativo introdotto dalla legge n. 401/1989, con cui il Questore dispone il divieto di accesso ai luoghi in cui si svolgono manifestazioni sportive specificatamente indicate (da qui l’acronimo DASPO) – oltre che ai luoghi limitrofi – per una durata minima di un anno e una massima di cinque, salvo casi espressamente indicati dalla legge in cui la durata può estendersi fino a otto anni.

In particolare, il DASPO colpisce chiunque ponga in essere comportamenti turbativi delle competizioni agonistiche quali ad esempio il lancio o il possesso di materiale pirotecnico o comunque pericoloso, lo scavalcamento delle barriere, la violenza o minaccia nei confronti di persone o cose.

Sanzione penale o amministrativa?…Una “frode delle etichette”.

Il divieto in questione, dalla fine degli anni 90 ad oggi, è stato oggetto di più modificazioni legislative volte, da un lato, ad estenderne l’ambito di applicazione, dall’altro, ad inasprirne il contenuto, al punto che, per una sorta di “frode delle etichette” neanche troppo riuscita, il DASPO si palesa come particolarmente invasivo della libertà personale dell’individuo, pur sfuggendo alla configurazione di sanzione penale nel senso tecnico e giuridico dell’espressione.

Trattasi, infatti, di sanzione senz’altro penale in termini di afflittività, posta la pesantezza con cui incide sulle libertà fondamentali del singolo (art.13 e art.16 Cost. – ovvero libertà personale e di circolazione), ma che si atteggia tuttavia come amministrativa in quanto svincolata, per grossa parte, da tutte quelle “cautele” che circondano le limitazioni della libertà personale nel nostro ordinamento giuridico. Vediamo, brevemente, perchè.

Tra anticostituzionalità latente e anomalia espressa, una sanzione sine iudicio.

Il DASPO non è una pena in quanto, perchè possa essere comminato, non richiede alcun previo accertamento della commissione di un reato dinnanzi ad un giudice terzo e imparziale nell’ambito di un processo in cui sia assicurato il contraddittorio: ed è su questo punto, pare, che si è giocata e si gioca se non tutta, almeno buona parte della aderenza della misura in oggetto ai basilari principi di uno stato di diritto.

A tacer d’altro, non può non tenersi conto del fatto che pur avendo “salvato” il ultrasromadivieto, annoverandolo tra le misure c.d di prevenzione (che appunto possono essere applicate anche a prescindere dall’accertamento della responsabilità di un soggetto in sede giudiziale) la stessa Corte Costituzionale ha riconosciuto che, in linea di principio, la misura in esame rientra tra le forme di restrizione della libertà personale, per cui trovano applicazione le garanzie previste dall’art. 13 Cost.; derivandone che: 1) detta misura può essere imposta solo con atto motivato dell’Autorità Giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge (art.13 Cost. Comma 2); e che 2) solo, in casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge, è consentito all’autorità di pubblica sicurezza di adottare provvedimenti provvisori, che devono essere comunicati entro quarantotto ore all’autorità giudiziaria e se questa non li convalida nelle successive quarantotto ore, si intendono revocati e restano privi di ogni effetto (art.13 Cost. comma 3).

Eppure, a ben vedere il DASPO si configura in termini di atipicità anche rispetto alle stesse misure di prevenzione “tipiche” (si vedano ad esempio, in epoca recente, quelle di cui agli artt. 4 e ss. del D.Lgs. 6 settembre 2011, n. 159, c.d. codice antimafia), le quali, per i motivi sopra spiegati, rappresentano già di per sé una anomalia rispetto al diritto penale.

Mentre per queste ultime, infatti, l’organo di polizia ha le vesti del soggetto proponente e competente ad applicare la misura è l’autorità giudiziaria, il DASPO è invece direttamente affidato a un provvedimento dell’autorità di pubblica sicurezza e solo nel caso in cui esso contenga anche l’obbligo di presentarsi presso il competente ufficio o comando di polizia ( le cosiddette “firme”), necessita di successiva convalida da parte dell’Autorità giudiziaria.

In altri termini, perchè possa essere applicato, non dal giudice, ma dalla polizia, è sufficiente una semplice denuncia, o, addirittura, anche solo “elementi di fatto” laddove sia disposto a chi, “sulla base di elementi oggettivi, risulta avere tenuto una condotta finalizzata alla partecipazione attiva ad episodi di violenza in occasione o a causa di manifestazioni sportive o tale da porre in pericolo la sicurezza pubblica in occasione o a causa delle manifestazioni stesse” (cfr. la famosa sentenza della Sez. VI del 16 dicembre 2010 del Consiglio di Stato).

Tutto ciò premesso, ne emerge una misura senz’altro afflittiva della libertà personale che, non essendo giuridicamente qualificata come “pena”, risulta svincolata da qualsiasi ancoraggio al principio di legalità in materia penale (art.25 Cost.) , che si basa su un giudizio, rectius su una discrezionalità della Autorità di pubblica sicurezza, che la emette sulla base di una valutazione prognostica – ex ante e in astratto – sul solo presupposto, in ultima analisi, della pericolosità sociale, peraltro presunta, del soggetto colpito dal provvedimento.

Una sanzione senza giudice, o meglio, che trova il suo giudice primo nell’autorità di pubblica sicurezza, in uno scenario che ricorda molto Sylvester Stallone nel film Dredd – La legge sono io, in cui i tutori dell’ordine avevano non solo il potere di giudicare il soggetto colpevole senza alcun tipo di processo, ma anche quello di emettere contestualmente la relativa sanzione. Quello che nelle guide tv degli anni 90 era classificato come fantascienza hollywoodiana diviene, oggi, realtà.

La legge n.146/2014 (Renzi) e l’estensione dell’ambito materiale di applicazione.

Dal Daspo a vita a quello per le manifestazioni studentesche. Cosa succede quando chiudo la porta ma (volutamente) lascio aperta la finestra…

A questo punto, bisogna sottolineare come la recente legge n.146/2014 fermamente sostenuta dal governo Renzi – tanto che il decreto a cui da applicazione portava il nome dell’attuale premier – abbia esteso notevolmente il campo di applicazione del DASPO, comprendendo ora anche chi sia stato denunciato o condannato per reati contro l’ordine pubblico.

Per l’esattezza, l’art. 6 comma 1 legge 401/1989, nella sua ultima versione, prevede che la misura in esame sia applicabile “nei confronti delle persone che risultano denunciate o condannate anche con sentenza non definitiva nel corso degli ultimi cinque anni per uno dei reati di cui all’articolo 4, primo e secondo comma, della legge 18 aprile 1975, n. 110, all’articolo 5 della legge 22 maggio 1975, n. 152, all’articolo 2, comma 2, del decreto-legge 26 aprile 1993, n. 122, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 giugno 1993, n. 205, all’articolo 6-bis, commi 1 e 2, e all’articolo 6-ter, della presente legge, nonché per il reato di cui all’articolo 2-bis del decreto-legge 8 febbraio 2007, n. 8, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 aprile 2007, n. 41, e per uno dei delitti contro l’ordine pubblico e dei delitti di comune pericolo mediante violenza, di cui al libro II, titolo V e titolo VI, capo I, del codice penale, nonché per i delitti di cui all’articolo 380, comma 2, lettere f) ed h) del codice di procedura penale ovvero per aver preso parte attiva ad episodi di violenza su persone o cose in occasione o a causa di manifestazioni sportive, o che nelle medesime circostanze abbiano incitato, inneggiato o indotto alla violenza”, ed ancora nei confronti di chi, sulla base di elementi di fatto, risulta avere tenuto, anche all’estero, una condotta, sia singola che di gruppo, evidentemente finalizzata alla partecipazione attiva ad episodi di violenza, di minaccia o di intimidazione, tali da porre in pericolo la sicurezza pubblica o a creare turbative per l’ordine pubblico nelle medesime circostanze di cui al primo periodo”.

Dice… “ma che vor dì”?

Non vuol dire solo che la “diffida” possa arrivare per tutta una serie di ipotesi prima non previste e comunque poco se non nulla conferenti con la finalità della norma (la cui “ratio ispiratrice” vorrebbe essere la sicurezza negli stadi), quali – a mero titolo esemplificativo – denunce per rapina, estorsione (?!) o incendio boschivo (!!?), ma anche e soprattutto che il divieto potrebbe essere disposto anche qualora la condotta illecita (pur sulla base di una semplice annotazione di P.G.) sia tenuta al di fuori di manifestazioni sportive, ma comunque tali da porre in pericolo la sicurezza pubblica (cfr. per approfondimento www.studiolegalecontucci.it).

In realtà, l’idea di introdurre obbrobri giuridici quali il DASPO a vita, o misure restrittive della libertà personale in una qualche misura analoghe, anche per altre situazioni che intrinsecamente prevedono l’aggregazione di una moltitudine di soggetti (es. manifestazioni studentesche, concerti) era stato più volte paventato, senza tuttavia trovare concretizzazione, posta la “genetica” incompatibilità di un divieto del genere con la libertà di manifestazione del pensiero garantita all’art.21 Cost.

Eppure con le recenti modifiche apportate alla legge 401/89, delle quali si è dato breve accenno, pare proprio che il governo Renzi abbia fatto rientrare dalla finestra ciò che si era voluto tenere fuori dalla porta.

Il tutto in nome dell’ordine pubblico, certo. Ma è una espressione, questa, a cui occorre prestare una cortese attenzione, perchè se svuotata da una qualsiasi connotazione in termini di giustizia sostanziale, rischia di riempirsi, di volta in volta, delle ansie di un legislatore timoroso e perciò poco attento, novello Don Abbondio tra vasi di ferro, che confonde, o fa finta di confondere, la forca con la giustizia.

E, pare a chi scrive, può esservi giustizia, sia pur nei suoi elementi minimi, fintanto che esiste una legge, un giudice e un processo in contraddittorio tra le parti. Solo così una qualsivoglia pena può, se non altro, aspirare ad essere giusta. Se, per ventura, uno o più di questi elementi minimi difetta, siamo nel Medio Evo e Alfredo Rocco, probabilmente, si vergognerebbe di un “mondo così”… ove una limitazione della libertà personale possa essere disposta a prescindere dell’accertamento della penale responsabilità del destinatario del provvedimento.

Il fatto

È quanto accaduto ad alcuni ragazzi romani, raggiunti da DASPO in seguito agli episodi accaduti a luglio a Roma, in via del Casale di San Nicola, in occasione del trasferimento di centinaia di immigrati in una struttura collocata all’interno di una zona residenziale di circa duecento famiglie italiane.

san nicolaI ragazzi, appartenenti al movimento politico CasaPound Italia, sono stati quindi sottoposti a DASPO, in quanto colpevoli di aver supportato i residenti in una pacifica manifestazione di dissenso in ordine al trasferimento degli immigrati in un edificio peraltro non a norma.

La volontà del ministero degli Interni dunque, che ha trovato ampio consenso tra le forze di polizia, è stata quella di estendere il DASPO a coloro che prendono parte alle manifestazioni pubbliche, in questo caso politiche.

Tuttavia, si fa fatica a trovare un collegamento ragionevole tra una condotta nell’ambito di una manifestazione politica ed una conseguente sanzione del divieto di accesso ad una manifestazione sportiva.

Tale risvolto, in primo luogo equipara la condotta di chi accende un fumogeno all’interno di uno stadio a chi magari è impegnato politicamente in piazza, in prima linea a difesa della propria nazione e dello Stato Sociale.

Inoltre, una simile deriva tende a reprimere tensioni sociali che talvolta hanno origine proprio dalla totale assenza delle istituzioni, in territori spesso degradati e lasciati al più completo abbandono.

È evidente che la repressione automatica di tali fenomeni, ben può condurre a problemi di ordine pubblico decisamente più gravi, ma forse, al momento, è più importante provare a tappare la bocca a chi non accetta di assistere inerme alla distruzione della propria Nazione.

Fabrizio La Rocca e Carlo Larenzi

(Società degli scudi)

You may also like

Commenta

Redazione

Chi Siamo

Il Primato Nazionale plurisettimanale online indipendente;

Newsletter

Iscriviti alla newsletter



© Copyright 2023 Il Primato Nazionale – Tutti i diritti riservati