Roma, 7 lug – A Fiume, nell’ottobre del 1920, si verificarono alcuni casi di peste, probabilmente per un’infezione proveniente da qualche paese dell’interno, che costrinsero il Comandante a mettere in atto subito tutte le misure necessarie per l’isolamento dei malati. Egli, inoltre, chiese di essere informato, giorno per giorno, sull’andamento del contagio, e fece di più: nonostante fosse stato vivamente sconsigliato da tutti, per l’alto rischio di trasmissione del morbo, volle recarsi di persona in visita ai ricoverati. Infatti, una mattina, di buon’ora, uscito quasi di nascosto dal Palazzo del Governo, si presentò prima all’Ospedale cittadino per verificare le condizioni dei contagiati, e poi, non avendoli lì trovati, a Pahlin, al modesto agglomerato di capannoni di legno, costruiti o riadattati da poco, con sentinelle armate intorno, che costituivano il lazzaretto.
All’interno operavano medici, infermieri e suore, tutti volontari ed esperti, che, avvisati e già in attesa, appena il Poeta ebbe superata la sbarra all’ingresso, gli si fecero intorno, mentre il dirigente della struttura gli esponeva la situazione. La voce della visita dell’inaspettato ospite si sparse in un momento, così che ne nacque una gran confusione, per la felicità del personale e dei malati, che, tutti, volevano farsi dappresso al poeta. Per questo, la raccomandazione unanimemente ripetuta dai medici all’illustre visitatore fu di non avvicinarsi ai contagiati e di evitare ogni contatto con loro. Si trattava di una ventina di uomini, in un’unica camerata: sarebbe stato possibile mostrasi a tutti dall’uscio, senza entrare, e dire da lì anche due parole. Ma egli non volle sentire ragioni: sollevò d’impeto le braccia di chi voleva fermarlo, ed entrò, con un tranquillo sorriso che sembrava dicesse: “Ci siete voi, ci posso essere anch’io, non abbiamo lo stesso cuore saldo, forse ?”
Passò tra i letti, fece una carezza fraterna a tutti, e si fermò particolarmente vicino al giaciglio dell’Artigliere Giuseppe Grossi, che gli avevano detto essere molto grave (e infatti, sarebbe morto di lì a poco). Al termine, si fece avanti un altro piccolo Artigliere che era tra quelli “isolati” a scopo precauzionale: “Comandante, mi chiamo Di Battista, sono abruzzese anch’io, e sapevo che voi sareste venuto. Stanotte vi ho sognato e vi aspettavo”. D’Annunzio lo abbracciò, invano trattenuto, anche questa volta, dai medici, e a stento riuscì trattenere una lacrima. Sopraggiunse, frattanto, una macchina del Comando, che si fermò all’ingresso, finchè il direttore del Lebbrosario , avvisato dal Poeta, fece avvicinare un paio di infermieri perché scaricassero alcune casse di “delicatezze” (come lui le aveva chiamate) per i ricoverati. Dopo di che, non senza aver stretto la mano a tutti, d’Annunzio salì a bordo per tornare in città. Di lì a qualche giorno egli indirizzò una lettera al dottor Leccese, che era il responsabile del lazzaretto, ricordando proprio il suo incontro con il malato moribondo: “Si ricorda di quell’infermo che mi mostrò, a uno a uno, i segni del morbo ? Tentava di parlare, con quella sua povera lingua gonfia, e di sorridere con quei poveri occhi incavati. Caro direttore, caro amico, oggi l’appestato risuscita in me per dirle, attraverso me, la gratitudine di tutti quelli che ebbero da lei assistenza e conforto. Quel giorno io gli avevo promesso la salvezza. Se ne ricorda ? ecco che oggi rivive, e pronunzia le parole che io non so trovare”.
Si tratta di un episodio rigorosamente autentico,anche nei dettagli, del quale nella miriade di aneddoti fiumani, si è persa la traccia. La versione qui fornita è tratta dal libro “Il Comandante” di Vittorio Margonari, edita da Pirola nel 1926. Personaggio singolare anche questo Margonari, come molti dei presenti a Fiume: Ufficiale del Commissariato Militare, fu incaricato da d’Annunzio di sovrintendere ai Servizi di Intendenza ed Amministrativi della città. Compito di grande delicatezza e responsabilità, se si considera che il maggior problema dei legionari non era la mancanza di uomini, e nemmeno di armi, ma quello dell’approvvigionamento dei viveri. Egli si avvalse, in maniera speciale, degli Uscocchi, che lo nominarono “Uscocco onorario”, e, scherzosamente lo definirono, in un documento contenente tutte le loro firme “ricettatore”, perché era a lui che consegnavano il “bottino” al termine di ogni colpo Di limpida onestà e di assoluta fiducia del Comandante fu anche lui a curare la documentazione relativa all’invio a Fiume dei fondi raccolti dal Popolo d’Italia, dalla quale emerse l’assoluta regolarità dei passaggi, e che fu decisiva nel processo intentato da Mussolini a due redattori licenziati, che avevano messo in dubbio la sua onestà, ma di questo, magari, ne parleremo un’altra volta…
Giacinto Reale