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Dal romanzo al delirio: l’antifascismo terapeutico di Scurati

by Sergio Filacchioni
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Scurati

Roma, 15 apr – C’è un momento, durante l’intervista ad Antonio Scurati andata in onda su La Torre di Babele il 14 aprile 2025, in cui lo scrittore – ormai più moralista che romanziere – afferma: “Non mi illudo che chi proviene dal lato sbagliato della storia possa dichiararsi tale”, in riferimento al dirsi antifascisti. Una frase che basterebbe da sola a dimostrare quanto l’ossessione antifascista di certa intellighenzia sia ormai ridotta a riflesso condizionato, più utile a sedare traumi personali che a comprendere i fatti storici.

Scurati tratta il Fascismo come nevrosi, non come fenomeno storico

Scurati, da tempo autoproclamato “interprete” del ventennio, continua a proporre un Mussolini più analizzato che analizzabile. La sua narrativa si è trasformata in una lunga seduta di psicoanalisi collettiva, in cui il Duce è il paziente, e gli italiani i pazienti inconsapevoli. Ma quello che ci serve, nel 2025, non è un lettino da terapeuta: è un archivio. L’approccio di Scurati e dei suoi epigoni ha un problema fondamentale: sostituisce la Storia con la colpa, la ricerca con il giudizio morale. Il risultato è un Duce “da interpretare”, non da studiare; un’ombra psichica, non una figura politica inserita nel suo contesto. Non stupisce che il romanzo di Scurati sia stato osannato in certi ambienti: è lo specchio perfetto di un’Italia che preferisce autoaccusarsi anziché capire. Un’Italia che continua a parlare del Fascismo come se fosse un disturbo della personalità, e non un movimento politico che ha avuto radici, consenso e risultati concreti – nel bene e nel male.

L’antifascismo come professione

Il caso Scurati è emblematico di una tendenza più ampia: l’antifascismo come carriera, come mestiere redditizio per accademici, giornalisti, scrittori. Un mestiere che non si basa sulla ricerca, ma sull’indignazione. Che non si alimenta di fatti, ma di slogan. Il Fascismo, in questo contesto, non è più un oggetto di studio: è un pretesto narrativo per ribadire la superiorità morale di chi se ne dichiara nemico. Ma così si perde tutto: il rigore storico, la capacità critica, e soprattutto la verità. Quella che gli storici – i veri storici – dovrebbero cercare, anche a costo di andare contro le narrazioni dominanti. Se vogliamo davvero capire il Fascismo – e l’Italia – non ci servono romanzieri in crisi, né intellettuali in cerca di assoluzione. Ci servono studiosi. Gente che conosce le fonti, che legge i documenti, che distingue il mito dalla realtà. In altre parole, ci serve più Renzo De Felice e meno Sigmund Freud. E forse anche un po’ di coraggio: quello di dire che la storia non può essere ostaggio della morale antifascista.

Sergio Filacchioni

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