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Cronache dal set – Pupi Avati a Ferrara per “L’orto americano”

by La Redazione
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Roma, 4 feb – Dalla fine dello scorso novembre, Pupi Avati ha diretto negli studi di Cinecittà le scene in interni di L’orto americano (da un suo stesso romanzo): il nuovo capitolo del “Gotico padano maggiore”, un genere horror da lui stesso inaugurato e codificato (cominciando con la pietra miliare La casa dalle finestre che ridono – film del 1976 – e proseguendo, con esiti alterni, sino al nuovo classico Il signor Diavolo – romanzo del 2018 e film del ’19); per poi spostarsi tra Comacchio e dintorni, per le prime scene in esterni (intervallate dalle partecipazioni, assieme al fratello Antonio, a vari eventi, tra i quali il Torino Film Festival).

Avati l’inarrestabile

Il signor Diavolo interrompeva un esilio dal grande schermo durato un lustro (dopo il fiasco di Un ragazzo d’oro – 2014, dramma psichiatrico con Sharon Stone e Riccardo Scamarcio circondati da una mesta rassegna di personaggi televisivi – Avati si era dedicato a tre fiction); iato al quale è seguita una rinnovata frenesia (quattro film e tre romanzi in tre anni), dai risultati non sempre felici: se Lei mi parla ancora (dalle memorie di Giuseppe Sgarbi, padre di Elisabetta e Vittorio) è uno dei migliori drammi avatiani, e se L’archivio del Diavolo (ottimo – ma infilmabile, perché frammentario – romanzo sulla cui improbabile riduzione cinematografica circolano voci tanto insistenti quanto puntualmente disattese) è il degno seguito di Il signor Diavolo; d’altro canto, il tanto agognato progetto sulla “Vita di Dante” si è risolto in un pasticcio (premiato dal botteghino), e l’ennesimo dramma agrodolce dal titolo wertmulleriano, La quattordicesima domenica del tempo ordinario, ha visto tante buone idee (tra cui la consuetudine di consegnare ruoli drammatici ad attori che non vi si sono mai cimentati: qui si tratta di Edwige Fenech e Massimo Lopez – oltre a un cameo di Cesare Bocci da applausi a scena aperta) sciupate da un protagonista a dir poco inadeguato (Lodo Guenzi) e dall’assurda reiterazione d’una canzone non proprio trascinante, scritta per l’occasione dal riesumato Sergio Cammariere (“le cose belle son volate via, lasciandomi nel buio della vita…”).

La quattordicesima domenica del tempo ordinario, annunciato a sorpresa (correva appunto voce che il prossimo film sarebbe stato L’archivio del Diavolo, ma che ci sarebbe voluto ancora qualche mese) e realizzato a tamburo battente (le riprese sono cominciate quando Dante era ancora nelle sale cinematografiche, e lo stesso Pupi è finito in ospedale accusando durante la prima settimana sul set un pesante malore), offriva un monito: fare con calma, radunare le idee e organizzarle meglio. Invece no: se da un lato fa sorridere la seconda smentita ai cialtroni che, sedicenti “bene informati”, proclamavano che Dante sarebbe stato l’ultimo film del Pupi nazionale; d’altra parte l’esempio di La quattordicesima domenica del tempo ordinario, film discreto che sarebbe stato ottimo se realizzato con più pazienza, lascia temere conseguenze analoghe per l’adattamento filmico di L’orto americano.

L’orrenda storia dell’orto americano

Il romanzo è uscito lo scorso 31 ottobre (Halloween ormai è popolare in Italia quasi quanto lo è negli Stati Uniti). Il protagonista (senza nome: la sceneggiatura lo indica come “lui”) è un ragazzo bolognese, aspirante scrittore (senza speranze) e affetto da gravi patologie psichiche. Appena terminata la Seconda Guerra (che ha trascorso non al fronte, bensì in manicomio) si innamora perdutamente di un’ausiliaria americana alla quale ha dato un’indicazione stradale, per poi perderla di vista; salvo imbarcarsi in una delirante trasferta in Iowa, dove il destino cinico e baro lo conduce sulle tracce d’un orribile mistero riguardante proprio la bellissima yankee.

Per il ruolo del protagonista era stato annunciato Lodo Guenzi, che però ha deciso di non dare seguito all’esperienza della Quattordicesima domenica (gliene siamo grati); lo sostituisce Filippo Scotti, comasco come Camilla Ciraolo (Sandra, ossia il ruolo di Edwige Fenech da giovane, nella Quattordicesima domenica) e già protagonista per Paolo Sorrentino di È stata la mano di Dio. I fratelli Zangotto sono il casertano Roberto De Francesco (caratterista dal folto curriculum) e lo svizzero-veneto Armando De Ceccon (misconosciuto attore teatrale). Cast completato con la consueta sfilata di veterani avatiani: Chiara Caselli, Andrea Roncato, Massimo Bonetti, Claudio Botosso, Patrizio Pelizzi, Filippo Velardi, Romano Reggiani; assieme all’inglese Rita Tushingham, nota in Italia per Gran Bollito (film grottesco di Mauro Bolognini sulle nefandezze di Leonarda Cianciulli, la “saponificatrice di Correggio”, con il mirabolante terzetto en travesti Max von Sydow – Alberto Lionello – Renato Pozzetto); tradizionale anche il cast tecnico – Cesare Bastelli direttore della fotografia, montaggio di Ivan Zuccon; Pupi assistito dal figlio Tommaso per la sceneggiatura e dalla figlia Mariangela per la regia.

Baluardo dell’Amore: il set ferrarese

Lo scrivente ha partecipato, in qualità di comparsa e di inviato per il Primato Nazionale, a una giornata delle riprese di L’orto americano (dopo le tre per Lei mi parla ancora, già raccontate per Oltre la Linea, e le due per la Quattordicesima domenica riportate su Destra.it): giovedì 14 dicembre 2023, a Ferrara, la meravigliosa città rinascimentale attorno alla quale ruotavano le vicende, già portate al cinema dallo stesso Avati, della famiglia Sgarbi. Girare una scena di fucilazione nella città degli Este rievoca uno dei più grandi film italiani: La lunga notte del ’43, esordio da regista di Florestano Vancini (che lo sceneggiò assieme a Pier Paolo Pasolini) tratto da un racconto di Giorgio Bassani, ispirato all’eccidio del Castello Estense – la fucilazione di undici antifascisti, il 15 novembre del 1943, tuttora ricordata da una targa tra il fossato del castello e la farmacia di Pino, il personaggio di Enrico Maria Salerno.

Il periodo è lo stesso – l’Italia stremata dalla guerra: che però è ancora in corso nel film di Vancini, ed è appena finita in quello di Avati – e la città pure, ma il tono è diverso: invece degli orrori della guerra civile, il regista bolognese porta sul set quelli della mente: il protagonista di L’orto americano è un ragazzo psicolabile che si trova (nemmeno troppo suo malgrado) a indagare sulle malefatte d’un serial killer che terrorizza il ferrarese, tra Argenta e Comacchio.

Le riprese italiane sono terminate il penultimo giorno dell’anno, presso le Saline di Cervia. Tra gennaio e febbraio i fratelli Avati e la troupe filmeranno le (poche) scene americane, nella città di Davenport (nell’Iowa, centomila abitanti lungo le rive del Mississippi), già teatro di due film di Pupi: Bix – Un’ipotesi leggendaria (1991, biografia del jazzista Bix Beiderbecke, del quale Avati ha comprato la casa) e l’horror Il nascondiglio (2007, dove Laura Morante compra “Snakes Hall” – proprio la dimora di Beiderbecke acquistata da Pupi – per farne un ristorante italiano). L’orto americano è quindi il quarto film “made in USA” di Avati (L’amico d’infanzia, 1994, è ambientato a Chicago) e il quinto con ambientazione internazionale (alcune scene di Zeder – 1983 – sono ambientate a Chartres, seppur girate a Bologna).

Militari improvvisati per Pupi

La mattina di giovedì 14 dicembre è uggiosa, adatta alla scena (il pomeriggio si schiarirà appena). Dal parcheggio di piazzale Kennedy attraverso Porta Paola e mi incammino lungo via Mayr: tetra, lunghissima, tutta dritta. L’appuntamento per le comparse è nel viale Alfonso d’Este: l’indicazione è “cercare le roulotte”. Le quali sono parcheggiate vicino al Baluardo di San Giorgio, dove i locali della pro loco ospitano parrucchiere, truccatrici e costumiste armate di divise da militari e da carabinieri, vestiti “vintage”. Per noi “fucilatori”, capelli rasati quasi a zero sotto l’elmetto. A gruppi di quattro, un pulmino ci porta al Baluardo dell’Amore (parte dell’estensione, commissionata da Borso d’Este a metà ‘400, della cinta muraria): un parco con pista ciclabile lungo il Po di Volano riaperto soltanto tre anni fa, dove le riprese fervono già da ore.

Il prato del baluardo è umido, per la pioggia del giorno prima: darà problemi. Le riprese non filano liscio: il radiatore del furgoncino Ford d’epoca che porta “lui” ed Emilio sul luogo dell’esecuzione parte sputando una nuvola (che lascerà un persistente odore di frizione sul set); si continua la ripresa, l’ultima per la quale il furgone accetti di avviarsi. La comparsa che riveste i panni del prete è portata sul telaio della bici da “Cavallo”, uno scheletrico veterano delle figurazioni (il cui più alto momento di gloria è stato il boia del primo Diabolik dei fratelli Manetti): al terzo tentativo di pedalare sull’erba bagnata si spiattellano per terra. Pupi non è contento: le riprese di ieri si sono concluse senza filmare nulla, e le prime ore di oggi sono state dedicate anche alle interviste per le testate locali (quando sono arrivato sul set, intorno a mezzogiorno, il regista stava non proprio cortesemente chiedendo a un fotografo di scena di levarsi di torno). Per la pausa pranzo si deve aspettare che la ripresa dell’arrivo di “lui” ed Emilio sia completata: quasi alle due del pomeriggio, date le bizze del furgoncino.

Radunati i “militari” – otto soldati (graduati e non) e due carabinieri – saliamo su di un altro furgone, nel cassone coperto da un telo: i fabbri ci portano i fucili. Si tratta di autentici Garand M1, con però la carica e i grilletti bloccati, e le canne piombate. Attendiamo, mentre qualche passante – qualcuno in bici, altri fanno jogging – si ferma a guardarci. Finalmente il furgone parte, raggiungendo la scena: aiutiamo Glauco/Armando De Ceccon a salire – avendo mani e piedi legati con gli schiavettoni, non può farlo autonomamente. Noi stessi avremo poi problemi a salire e scendere dal cassone: gli stivali da soldato (originali e d’epoca) non sono proprio l’ultimo ritrovato dell’ortopedia, e facendo su e giù tra il furgone sporco e il terreno bagnato si scivola, con in più l’ingombro del fucile. A ogni ciak, a ogni saliscendi sia le suole che il cassone si sporcano ancor di più, peggiorando il problema.

Nessun inconveniente però ci può fermare: siamo le comparse d’un film di Pupi Avati. La scena si articola in quattro momenti: il nostro arrivo sul luogo dell’esecuzione: scendiamo, noi soldati ci disponiamo su due ali, i carabinieri trascinano giù Glauco, che vede il fratello e lo invoca con disperazione e rancore, dopo di che il prete prova invano a consolarlo; De Ceccon simula la morte di Glauco (filmata in un secondo momento: il rumore degli spari sarà aggiunto in studio); noi soldati torniamo al furgone, e una piccola folla ci ringrazia d’aver liberato la zona dal “mostro”; degli impiegati comunali documentano quanto accaduto (situazione quando noi “soldati” siamo stati ormai portati via dal set).

Un’esperienza magica

Tra la morte di Glauco e la scena dei messi comunali, noi “militari” siamo congedati: ottengo che Pupi firmi per mia madre e il mio patrigno la loro copia del romanzo. Saluto il regista, la figlia Mariantonia che mi ha riconosciuto dalle precedenti comparsate e la troupe inneggiando all’invenzione avatiana (“W il Gotico Padano!”), e torno con Eleonora e i “commilitoni” al quartier generale. Il momento dei saluti non è affatto triste: è quando ci si rende conto davvero cosa sia successo, è quando si contempla la gioia d’aver partecipato alla magia del cinema. Ripercorro a ritroso via Mayr: se all’andata (come tre anni prima, quando la percorrevo per andare al bed & breakfast in cui alloggiavo durante le riprese di Lei mi parla ancora) mi è sembrata un tedioso rettilineo, stavolta lo percorro volando. Lo zaino, il borsone, la macchina fotografica, i vestiti portati in più non ingombrano più, ho addosso solo l’ansia feroce di trattenere ogni attimo di questo momento felice in questa città meravigliosa. Il pensiero di dover a un certo punto andarmene è doloroso, nel parcheggio dico all’automobile che se non partisse (come recita la canzone della balera in Lei mi parla ancora: “non partir, non partir…”) gliene sarei grato. Invece mi riporta via, dalla Tangenziale Ovest di Ferrara alla A13 Padova-Bologna, poi sulla A1, dove trovo la sorpresa del tratto di Piacenza bloccato: proprio stasera un camion ha sversato il suo carico di glicerina.

Quello stesso giorno è uscito il film Ferrari, durante il quale il Drake, interpretato dal bravissimo Adam Driver, dice quello che si trasformerà, al plurale, nel titolo delle sue memorie: “è una gioia terribile”. Intendeva qualcosa di diverso, ma sono parole adatte a ciò che regala partecipare all’arte e alle imprese di Pupi Avati, questo grande mago del cinema.

Tommaso De Brabant

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