Roma, 4 feb – Nel frattempo la costruzione del regime continua febbrile. A livello teorico lo scontro con i liberali diventa, per alcune frange del fascismo, senza quartiere. Alcuni autori vagheggiano la costruzione di una vera e propria «nuova scienza economica» contribuendo a mettere in discussione i postulati classici e i concetti di laissez faire e homo oeconomicus. Nelle discussioni sull’approccio macroeconomico e sul ruolo dello Stato il corporativismo è protagonista non meno di un gigante dell’economia come John M. Keynes. I convegni sindacali e corporativi del 1930 e del 1932 sono altri due momenti di significativo dibattito. Tra tutti risalta ovviamente la teoria di Ugo Spirito sulla “corporazione proprietaria”, in cui ogni lavoratore sarebbe diventato azionista e proprietario dell’impresa in misura del grado gerarchico. Al di là delle numerose minacce e accuse di “bolscevismo”, l’opera di Spirito testimonia il clima di altissima tensione ideale e culturale del ventennio, capace di affrontare in profondità la crisi del capitalismo. Tra i molti istituti creati dal regime, come l’INPS e l’INAIL, spicca l’IRI (guidato dal socialista Beneduce) che conferisce al paese l’impulso dirigista alla base del suo sviluppo industriale. Con la creazione delle corporazioni lavoratori e datori vengono messi alla pari al tavolo delle decisioni all’interno di questi organi statali, per poi entrare definitivamente nel meccanismo legislativo grazie alla Camera dei Fasci e delle Corporazioni (1939). La borghesia viene “processata” dalle giovani leve del fascismo come Berto Ricci, mentre neanche lo scoppio della guerra frena la rivoluzione sociale, pensiamo solo alla Carta del Lavoro posta a fondamento del Codice Civile del 1942. Tra i maggiori punti critici rimangono l’eccessivo potere degli industriali nelle alte sfere del regime e la scarsa applicazione del metodo elettivo nei sindacati e nelle corporazioni, anche se dettata dalla necessità di un controllo politico vista la novità delle concezioni e dello spirito riformatore e la necessaria gradualità delle sue applicazioni.
Dopo la crisi e il dramma del 1943, il fascismo vive i suoi ultimi mesi con la Repubblica Sociale Italiana, in cui si compie l’effimero ma significativo salto di qualità: la socializzazione delle imprese. I lavoratori entrano nei consigli di gestione delle singole aziende, da cui viene espulso invece il capitale finanziario esclusivamente speculativo e non partecipe sul campo. Una vera e propria pagina di civiltà. Quello che troppo spesso non si è voluto capire è che questo passaggio avviene in stretta linea di continuità con l’impostazione corporativa precedente, tanto che il crollo fascista del 25 luglio potrebbe essere stato “accelerato” dalla destra economica italiana (la stessa del delitto Matteotti) timorosa di alcuni progetti socializzatori avanzati dal Ministro delle Corporazioni Tullio Cianetti e avallati da Mussolini. L’operaio e Ministro del Lavoro Giuseppe Spinelli, l’ultimo federale di Torino Giuseppe Solaro, i giornalisti Pezzato e Caprino, il comunista Bombacci sono tra gli uomini più interessanti ed esemplari dell’esperienza di Salò.
Caduto il fascismo, nell’Italia democristiana e comunista di corporativismo si parla ben poco. L’afflato sociale non è comunque estraneo ad alcuni settori della DC e del PSI, che compiono diverse mosse significative per il paese sfruttando le basi poste dal regime come l’IRI e l’ENI (sorto dall’AGIP). Molti politici sono cresciuti nelle palestre culturali del regime, come Amintore Fanfani, professore di Diritto Corporativo negli anni Trenta, mentre il PCI recluta alcuni quadri sindacali dalle file fasciste. Sviluppo e riforme sociali caratterizzano il primo dopoguerra, anche perché la presenza dello spauracchio dell’Unione Sovietica impone un minimo di interesse verso le masse lavoratrici per allontanarle dalle promesse (per quanto propagandistiche) di Mosca. Non è un caso che appena crolla il muro di Berlino l’accelerazione liberista cancelli in breve tempo lo Stato sociale. Tangentopoli spazza via uomini come Craxi che, pur con tutti i loro difetti, erano animati da senso dello Stato e convinti della supremazia della politica sull’economia. Da quel momento in poi è un continuo festival di privatizzazioni del patrimonio industriale dell’IRI, favorito da Prodi a beneficio di istituti come Goldman Sachs (si legga I giorni dell’IRI di Massimo Pini). La finanza anglosassone detta le condizioni al gotha economico del paese sul panfilo Britannia (1992), mentre i governi tecnici dei primi anni Novanta, primo colpo di stato “dolce” secondo Giulio Tremonti, spianano la strada al mercato cambiando la legge bancaria del 1936, che imponeva la separazione tra banche commerciali e banche di investimento. Comincia quella frana inarrestabile descritta da Luciano Gallino in Finanzcapitalismo e Il lavoro non è una merce che produce l’attuale panorama fatto di delocalizzazioni, privatizzazioni e precarietà. Il trionfo della finanza e della speculazione viene favorito dalla sinistra che, con la sua utopica idea di accoglienza indiscriminata e apertura delle frontiere, finisce per cancellare l’identità e la sovranità del paese. Clinton negli Stati Uniti e l’attuale PD in Italia (erede di quel PCI non a caso risparmiato da Di Pietro) sono tra i maggiori colpevoli delle riforme che favoriscono la fine del ruolo dello Stato a favore delle invenzioni finanziarie che scateneranno la crisi (la cui follia è descritta nel recente film La grande scommessa). L’immigrazione selvaggia, soprattutto ai drammatici ritmi attuali, costituisce quell’esercito industriale di riserva descritto da Marx che degrada irreparabilmente il tessuto sociale e le tutele lavorative. Non a caso, alcuni teorici marxisti come Costanzo Preve e Diego Fusaro si sono schierati contro le politiche tipicamente di sinistra di cancellazione delle frontiere, della famiglia, dell’intervento dello Stato. Per finire, il governo tecnico di Monti, secondo colpo di stato “dolce”, e la costruzione europea, nell’impeccabile lettura Alberto Bagnai (Il tramonto dell’Euro e L’Italia può farcela) hanno bastonato pesantemente l’economia italiana. L’ultima sfida in ordine di tempo arriva dal TTIP, il trattato commerciale tra USA e Europa voluto fortemente da Obama, che potrebbe dare il colpo di grazia a qualsiasi ideale sovranista e sociale.
E gli eredi del fascismo? L’MSI soffre sin dalla nascita la situazione internazionale e compie una scelta atlantista in opposizione al comunismo. Per quanto comprensibile, vista la spietatezza del PCI e dell’estrema sinistra, questo passo contribuisce a mettere in secondo piano quell’immenso patrimonio costituito dal corporativismo e dagli intellettuali del ventennio. L’Istituto di Studi Corporativi (creato nel 1972) pubblica diverse memorie di sindacalisti fascisti e tenta di attualizzare il messaggio corporativo soprattutto con Gaetano Rasi, ancora attivo culturalmente (Storia del progetto politico alternativo l’ultima fatica). Altri uomini riescono, tra mille difficoltà, a lasciare piccole tracce. Pensiamo a Diano Brocchi (Democrazia corporativa, 1963), Beppe Niccolai e Rutilio Sermonti, autore di molte proposte sociali e volumi importanti come Valori corporativi e Stato Organico. La fine che fanno invece gli eredi dell’MSI guidati da Fini non vale neanche una menzione. Negli ultimi tempi è stato merito di CasaPound aver provato a riportare nel dibattito politico il tema corporativo. La proposta del Mutuo Sociale ripresa dal Manifesto di Verona è il primo esempio, mentre a livello culturale il libro Corporativismo del Terzo Millennio è ricco di analisi storiche e interessanti progetti concreti. Qui troviamo una ricostruzione del dibattito storiografico sul corporativismo, in cui solo ultimamente si è cominciato a parlare dei risultati economici e sociali del regime e del significativo ruolo del sindacato fascista nel segno di un nuovo concetto di rappresentanza politica. Infine, vengono lanciati diversi spunti “corporativi”: l’idea della concreta applicazione della Costituzione nell’articolo 46 (partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese), del rilancio del ruolo dello Stato (attraverso la Cassa depositi e prestiti) per disegnare una politica industriale di rilievo, la lotta alla disoccupazione e alla totale indifferenza dei sindacati verso la consapevolezza dei lavoratori attraverso la socializzazione, come già applicato in alcune rarissime esperienza aziendali del Nord Italia. Giova menzionare, per concludere, che Gianluca Passera, studioso, sindacalista e lavoratore, ha voluto pubblicare un’opera dedicata alla socializzazione (La nobile impresa) a testimonianza che la volontà di partecipazione reale e sentimento comunitario non è ancora scomparsa del tutto nella nostra Italia.
Agostino Nasti