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Consolato: “L’Italia non conta nulla, ma il mistero di Roma è più forte di tutto”

by Adriano Scianca
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consolatoRoma, 9 gen – In tempi di Giubileo, e con l’Islam in grande fibrillazione, ha senso parlare ancora del paganesimo europeo e romano, non come curiosità storica erudita ma come forze viva anche nell’oggi? È quello che abbiamo chiesto a Sandro Consolato, saggista, autore di Evola e Dante. Ghibellinismo ed esoterismo (Arya), dell’e-book storico Dell’elmo di Scipio, già curatore della rivista di studi tradizionali “La Cittadella” (2001-2012).

In un suo famoso libro, Alain de Benoist si chiedeva: “Come si può essere pagani?”. Una domanda la cui risposta richiederebbe, appunto, un intero saggio. È possibile, tuttavia, dare qualche indicazione concreta per chi volesse iniziare ad approcciarsi, non solo intellettualmente, al mondo delle religioni ancestrali europee?

Se la domanda si riferisce ad un “paganesimo vissuto”, la mia risposta non può riguardare un generico o generale “mondo delle religioni ancestrali europee”. Io credo che, al di là delle ipotesi, di cui ormai ci si interessa seriamente anche in ambito storiografico, sulle reali sopravvivenze di almeno alcune forme degli antichi mondi spirituali precristiani, sia innanzitutto sempre esistito, in Europa, tra le élite con formazione classica, un paganesimo di tipo intellettuale ed etico, costituito dal riconoscersi in quel grande tesoro spirituale che è l’eredità filosofica del mondo greco e romano: platonismo/neoplatonismo e stoicismo. Da questo punto di vista, un grande modello è il filosofo inglese Thomas Taylor, vissuto all’inizio dell’Ottocento, un vero, autentico neoplatonico pagano nel bel mezzo della rivoluzione industriale. Se parliamo invece di un approccio propriamente rituale, l’argomento è più delicato. Ho notato negli ultimi tempi un incremento, qui in Italia, di gruppi che svolgono pratiche rituali. Ma, lo dico francamente e con una certa tristezza, ho l’impressione che si sia perso tanto lo spirito quanto la sobrietà e il rifiuto della spettacolarizzazione che avevano animato i gruppi che fecero da apripista. Poi, forse, da un punto di vista più ampio, non sarebbe neanche male rivitalizzare un po’ quel che rimane del “cristianesimo cosmico” europeo, cioè di quel Cristianesimo, riferimento anche di Mircea Eliade, in cui sopravviveva un calendario sacro, legato a ritmi naturali, un certo approccio a luoghi teofanici ecc.

Un altro ex membro della Nouvelle Droite, Guillaume Faye, ha dichiarato: “Non si va in giro a dire: ‘Io sono pagano’. Lo si è”. In polemica con i suoi ex sodali, Faye intendeva dire che il paganesimo può servire da strumento di formazione personale e da mito mobilitante comunitario, ma non da argomento metapolitico nel dibattito pubblico, in quanto genererebbe incomprensioni, ironie e sospetto. Lei è d’accordo?

È necessario che io precisi che l’ambiente entro cui, a partire da trenta anni fa, è avvenuta la mia formazione “pagana” era tutt’altro che vicino al paganesimo tanto di De Benoist (un intellettuale per cui, personalmente, invece, io ho sempre avuto una grande attenzione) quanto di Faye. Le idee di Faye, in particolare, hanno poco a che fare con un sentimento autenticamente religioso. Ciò precisato, nell’affermazione di Faye, in sé e per sé, posso riconoscermi, corrisponde anzi sempre di più al mio orientamento personale. E circa la questione, più strettamente pubblica, metapolitica e politica, ritengo sia vero che, comunque si voglia intendere il paganesimo, nel dibattito pubblico sarebbe un argomento perdente, soggetto appunto a incomprensioni, ironie e sospetti. Si può far molto invece sul piano culturale, e credo che in Italia gli ambienti più attrezzati culturalmente abbiano lavorato bene per dare dignità intellettuale a certi orientamenti, incontrando interesse e simpatia in ambienti accademici, giornalistici, a volte anche politici.

Anche fra chi ha interesse per il paganesimo, spesso la tradizione romana non viene adeguatamente considerata. Fuori dall’Italia, ma incredibilmente anche entro i nostri confini, si preferisce spesso situarsi su un asse “greco-germanico”, in cui Roma è trascurata o addirittura vista come elemento di deviazione (era la tesi di Heidegger, per esempio). Perché accade questo?

È una bella domanda. Intanto, ho apprezzato molto che “Nouvelle Ecole” abbia dedicato un numero monografico ai Romani, segno che anche in Francia forse si comprende che… “Le monde est vide depuis les Romains” (lo disse Saint-Just). Esiste, storicamente, un neopaganesimo con forti venature antiromane, che dalla Francia e dalla Germania ha trasmesso anche i suoi virus in Italia, ovviamente là dove si è smesso di considerarsi Italiani, e si è giunti perfino all’esaltazione dell’impresa di Annibale, incensando dunque il grande mito (che coinvolse anche Freud) di tutte le rivincite semitiche su Roma. La polemica antiromana è un discorso vecchio, con cui lo stesso Evola negli anni Trenta/Quaranta dovette misurarsi costantemente nel suo confronto con i Tedeschi. Se ci si continua a immaginare i Romani come i distruttori del mondo celtico e germanico, aggiungendo che questi cattivi Romani si sarebbero poi ripresentati una seconda volta a distruggere gli stessi mondi sotto la forma della Chiesa cattolica , è chiaro che non si fa un passo avanti. C’è una lettura molto istruttiva a questo proposito: è il capitolo dedicato alla spedizione in Islanda nel libro “La Corte di Lucifero”, di quel personaggio affascinante ma poi ricoperto da un gran cumulo di fantasticherie, che fu Otto Rahn (in Italia lo conosciamo direttamente grazie alle Edizioni Barbarossa). Ebbene, Rahn riporta gli insegnamenti che in quella occasione riceve da un camerata dell’Ahnenerbe più addentro di lui nelle “verità” del paganesimo germanico. E in tali insegnamenti l’antiromanesimo è tutt’altro che un particolare. Il cristianesimo stesso sarebbe stato negativamente corretto dai Romani e dagli Ebrei, e Roma è lo stesso Lupo Fenrir che uccide Odino. Comunque, amici ed ex amici che negli anni passati hanno avuto rapporti con gruppi pagani europei, anche tedeschi, hanno potuto registrare il prevalere oggi di uno spirito di “ecumenismo pagano”.

Al di là di ogni considerazione relativa alla geopolitica, all’ordine pubblico, alla sostenibilità economica, l’immigrazione di massa può essere vista come una “profanazione” (inconscia… o forse no) dello spazio sacro della nazione, ovvero come una violazione della logica religiosa dei confini che fu centrale nella tradizione romana, e in realtà anche in quasi tutte le tradizioni antiche e moderne eccetto, appunto, l’Occidente liberale e globalizzante?

È molto difficile oggi parlare di “sacralità” dei confini uscendo dalle retoriche del passato prossimo e portandosi sul terreno, invece, delle realtà sacrali del passato remoto, di cui solo una precisa scienza spirituale potrebbe verificare lo stato di “realtà in atto”. Farei quindi un discorso meno centrato sul confine territoriale in senso stretto. L’omogeneità etnica e religiosa è possibile, da sempre nella storia, solo in società isolate, ripiegate su se stesse. Nel mondo classico, i Greci, prima di Alessandro Magno, ebbero un indirizzo molto chiuso. I Romani, invece, fin dalle origini più aperto, e quella ellenistica e poi quella romana (che è anche romano-ellenistica) sono le due grandi globalizzazioni del mondo antico. In questi spazi, le condizioni giuridiche degli individui erano differenziate. Sono esistite migrazioni e anche deportazioni, ma entro il confine, amplissimo, dello spazio imperiale. Dal punto di vista culturale e religioso si assiste ad un multiculturalismo e ad una multireligiosità che però trovano sempre (almeno finché non spunterà fuori il cristianesimo) una sintesi superiore e non mettono in discussione la cultura e il sistema politico dominante. Sappiamo, chi studia un po’ di storia lo sa, che in Germania quelle che noi chiamiamo “invasioni barbariche” sono chiamate “migrazioni di popoli”. Possiamo accettare questa espressione, perché risponde a una realtà, ma quelle migrazioni sono, restano, dal punto di vista dell’Impero, delle “invasioni”. Anche quelle furono giocate su una dialettica di odio/attrazione e integrazione/invasione. Ma la logica delle migrazioni attuali, parlo della logica intrinseca, è peggiore di quella delle antiche invasioni/migrazioni (da cui peraltro nacque una nuova splendida civiltà, il che è impossibile con le nuove), ed è l’Europa stessa a renderla peggiore. Oggi, i confini “sacri”, più che dei limiti territoriali, dovrebbero essere dei principi spirituali, etici, politici di fronte ai quali chi non è europeo, ma vuole diventarlo, come un tempo si voleva diventare “civis Romanus”, dovrebbe sentirsi attratto elevativamente, e sapendo bene cosa del proprio retaggio culturale deve lasciare dietro e cosa può invece mantenere. Ma l’Europa, quasi totalmente svuotata di principi superiori, è solo l’oggetto di una attrazione consumistica e predatoria, quando non di un piano di conquista vera e propria, che diventa tanto più forte in quanto quelli al di là del limes sanno che non c’è più limes né chi lo difenda. Per concludere su questo punto, vorrei chiarire che il mio punto di vista è che una Nazione, o anche un sistema plurinazionale, può tranquillamente accogliere minoranze etniche e religiose estranee alla propria geostoria, ma non possono che essere e restare, appunto, delle minoranze, e delle minoranze che devono necessariamente rinunciare ad alcuni aspetti della cultura d’origine.

La centralità di Roma è una fatalità che è destinata necessariamente a imporsi, anche in sede pratica e politica? Oggi come oggi, malgrado gli sforzi “sovranisti” di singoli e gruppi, le grande politica mondiale non sembra passare per Roma e per l’Italia. Dobbiamo quindi rassegnarci ad essere, tutt’al più, una potenza regionale, anche in termini di “geografia sacra”?

È triste ammetterlo, ma contiamo pochissimo. È così: la grande politica mondiale non passa da queste parti. Bisogna però essere consapevoli del fatto che l’Italia, nel bene e nel male, volente o nolente, si troverà sempre coinvolta nella grande storia, e questo è in qualche modo “fatale”. Dunque, il modo in cui poi sta o starà dentro questa grande storia (e non v’è ormai dubbio che Fukuyama non aveva ragione, giacché la Storia non è finita e sta riprendendo la corsa, e pure con violenza destinata a crescere) è un fatto che dipende totalmente da noi Italiani. Ed è un fatto politico. Quanto alla centralità di Roma, essa è certamente connessa con l’alternarsi delle condizioni storiche dell’Italia, ma è anche vero che le trascende. E questo è un fatto piuttosto misterioso. Mi limito a dire, visto che l’Isis continua a ripetere che conquisterà Roma, che Roma è presente nelle profezie a carattere storico non solo cristiane, ma anche ebraiche e islamiche, e forse anche in quella buddhista, per non dire di altre propriamente pagane.

La costituzione di una Unione europea a trazione tedesca ha generato anche in Italia una reazione che oltre a essere ostile al governo di Berlino è spesso tout court anti-germanica. La storia dei rapporti fra Italia e Germania è del resto complessa. A livello spirituale e tradizionale, cosa rappresentano e come possono (o non possono) armonizzarsi Roma e Berlino?

A parte tutto ciò che si è già detto, ma che in fondo riguardava solo certi ambienti minoritari, bisognerebbe ricordare che Germania e Italia sono due grandi Paesi che vivono ancora, il primo soprattutto, sotto lo shock del loro disastro bellico e della colpevolizzazione di cui sono investiti. Riguardo al ruolo delle due nazioni, io penso che l’Italia abbia sempre cercato, dopo il ’45, di darsi un ruolo di “Paese che conta”, ma lo abbia fatto molto male, ad es. con l’entrata nell’Euro e con il non perdersi mai una chiamata alle armi degli Usa, mentre sarebbe stato più opportuno un grande sforzo di concentrazione su se stessa, puntare a migliorare il Paese in tutti i suoi aspetti, ricostruire un rapporto positivo Stato-cittadini. La Germania, invece, godendo di un buon sistema interno e di un grande prestigio in Europa, avrebbe dovuto assumersi il ruolo di guida, che le spettava oggettivamente, in ben altri modi, che ne legittimassero l’egemonia su un piano alto e condiviso da tutti gli Europei. Sul “significato spirituale”, di Roma credo di avere già detto. Di Berlino, francamente, non vedo un tale significato, se vogliamo dare alla parola “spirituale” un senso pieno. Dovrei aggiungere che Berlino, contrariamente a Vienna, che però ha esaurito il suo ruolo, non ha le caratteristiche geo-sacrali per essere uno stabile centro imperiale, e questo lo si è drammaticamente visto nel passato. Se poi con “Berlino” vogliamo sintetizzare l’intero mondo germanico, e la questione è quella, tutt’altro che nuova, se tra germanicità e romano-italicità ci possa essere intesa, ed intesa profonda, spirituale, non posso che ricordare che questo fu il grande tema che attraversò la vita e l’opera di Julius Evola nei due Paesi. Chi pensa che tutto questo rovello privato e pubblico di Evola sia riconducibile sic et simpliciter a un suo filonazismo si sbaglia, perché Evola fu innanzitutto sempre filotedesco, ma con la convinzione che il mondo germanico avesse trovato il suo telos nell’incontro col mito imperiale di Roma nel Medioevo e che solo ritrovando ancora una volta Roma, sfuggendo alle insidie di un mero pangermanismo e anche di un razzismo biologico, avrebbe potuto svolgere una grande missione europea. Nel contempo, pensava che l’Italia da un rapporto di alleanza-competizione con la Germania avrebbe potuto sviluppare quei tratti di disciplina individuale e collettiva, quel senso anagogico di servizio allo Stato, che essa stessa aveva insegnato al mondo finché era stata romana. Insomma, per lui i due popoli, i due mondi, dovevano essere amici, fecondarsi reciprocamente e guidare l’Europa. Nel 1940 a Desana (Vercelli) fu scoperto un tesoro risalente alla presenza dei Goti in Italia. Su un anello d’oro ci sono i nomi di due sposi, Stefanius (nome romano) e Valatruda (nome ostrogoto): credo che Evola non ne sapesse niente, ma questo anello forse ben rappresenta il suo “Medioevo romano-germanico”.

a cura di Adriano Scianca

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