Roma, 23 nov – Finalmente sono venuto a far parte dei Corpi Speciali di Attacco. Nei prossimi 30 giorni mi sembrerà di vivere più pienamente la mia vita. Verrà infine la mia volta! Io e la morte siamo in attesa. L’addestramento è stato duro, ma ne è valsa la pena, se davvero possiamo morire degnamente per una causa.
Morirò avendo davanti agli occhi la lotta commovente della nostra Nazione. In queste ultime settimane la vita scorrerà con ritmo impetuoso verso il termine ultimo della mia giovinezza…
L’impresa è stata fissata per i prossimi dieci giorni. Io sono soltanto un uomo. Spero di non essere né un santo né un mascalzone, né un eroe né uno sciocco, ma proprio soltanto un uomo. Dopo aver cercato e indagato ansiosamente nel corso della mia vita, muoio rassegnato, con l’unica speranza che essa serva come “esempio umano”.
Il mondo in cui vissi era troppo pieno di discordia. Per essere veramente una comunità di individui razionali, andrebbe organizzato diversamente. In mancanza di una sola grande guida, ognuno dà libero sfogo al proprio essere in modo tale che l’unione di suoni diversi dà luogo a una dissonanza là dove dovrebbe regnare soltanto una concorde e melodiosa armonia.
Serviremo con gioia la nazione nella dolorosa battaglia del momento. Punteremo contro le navi nemiche nella ferma convinzione di ciò che è stato e sempre sarà il Giappone: un luogo in cui possono esistere solo accoglienti comunità, donne coraggiose e splendide amicizie.
Qual è il dovere di oggi? Combattere.
Qual è il dovere di domani? Vincere.
Qual è il dovere di sempre? Morire.
Come fiori di ciliegio – In primavera – Lasciateci cadere – Belli e Radiosi.
Dal diario dell’Alfiere Heiichi Okabe, 2a Unità Speciale d’Attacco Shichisei
Dall’11 settembre 2001 una parola seppellita tra le pagine dei libri di storia e degli archivi è ritornata tristemente alla ribalta: Kamikaze!
Siano essi gli ultramediatici aerei di linea contro le Torri gemelle del 9/11, battezzanti questo secolo di guerre asimmetriche, o i molto più prosaici giovani terroristi infilati a forza di lavaggi del cervello e droga nei mezzi corazzati imbottiti di esplosivo lanciati verso le linee delle truppe di Assad, o i recentissimi uomini-bomba allo Stade de France durante la “Strage di Parigi”, i giornalisti e commentatori di tutto il mondo usano, impropriamente, una parola che riempì allo stesso modo la carta stampata e le pellicole dei cinegiornali nel 1944-1945.
La nascita e le vicende delle unità aeree Kamikaze (“Vento Divino”, in ricordo del tifone che avrebbe spazzato via una flotta mongola dal mare del Giappone nel 1281) sono ricostruite nel dettaglio in numerosi libri e siti web, quindi daremo qui solo alcuni dati essenziali, mettendo poi in luce invece un paio di particolari solitamente trascurati.
Nel 1944 le brillanti operazioni terrestri e aeronavali che condussero il Giappone alla conquista dell’oriente e del Pacifico erano per le armi giapponesi un lontano ricordo. Infatti, lo strapotere industriale americano, aveva più che compensato le perdite subite nel 1941-1942, e la US Navy e i Marines avevano riconquistato un’isola dopo l’altra, protetti da una impressionante armada di aerei basati su portaerei sempre più potenti, mentre l’arma sottomarina statunitense strangolava le vie di rifornimento marittimo nipponiche, lasciando sempre di più il Giappone nella penuria di materie prime, e mettendo in crisi il suo complesso industriale, già fortemente provato.
https://www.youtube.com/watch?v=bvsI_0E8ep0
Questa situazione, già tragica, divenne critica dopo la battaglia del Mar delle Filippine del 19-20 giugno 1944, quando la Flotta giapponese perse tre portaerei sulle cinque impiegate, e ben 600 aerei, una perdita ormai irreparabile e una sconfitta che sanciva la netta superiorità dei caccia americani F6F Hellcat, diretti da un controllo radar da terra sempre più accurato, contro gli una volta temibili A6 “Zero” giapponesi, e nel luglio cadeva Saipan, permettendo agli americani di bombardare direttamente il Giappone con i loro bombardieri strategici B29 Stratofortress: la strada per l’invasione del Giappone iniziava a essere aperta!
Le gravissime perdite in piloti addestrati e veterani subite dall’aviazione navale del Sol Levante in queste battaglie rappresentavano, inoltre, l’inizio della fine per quest’arma e della sua efficienza militare.
Ancora più grave era la situazione dei bombardieri convenzionali, in picchiata e aerosiluranti giapponesi, che non avevano ormai alcuna possibilità di colpire le navi americane superando la protezione dei ben pilotati caccia F6F Hellcat e F4 Corsair, e delle centinaia di cannoni a tiro rapido e mitragliere antiaeree dirette dal radar americane.
Gli ufficiali e i piloti dell’aviazione navale e terrestre giapponese erano ben consci che le loro missioni sarebbero state quindi votate al sicuro fallimento, se eseguita con tattiche tradizionali. Stretti in questa condizione disperata, tra gli ordini ricevuti e il loro dovere di soldati, reso ancor più ferreo dalla tradizione del Bushido (il codice di comportamento dei Samurai, che faceva parte dello spirito di ogni militare giapponese), alcuni ufficiali piloti giapponesi proposero allora di attaccare direttamente le navi nemiche investendole con i loro aerei, caricati di una o più bombe.
L’idea fu presto sviluppata, e la prima unità Kamikaze “ufficiale” (nei mesi precedenti diverse navi Alleate erano state già colpite in attacchi suicidi individuali) creata nell’ottobre 1944: l’Unità d’Attacco Speciale (Tokkō Tai), formata inizialmente da 24 piloti volontari agli ordini dei comandanti Asaiki Tamai e Yukio Seki. I quattro reparti dell’unità prendevano il nome da un breve poema patriottico: “Se mi chiedete cos’è l’anima (Yamato) del Giappone (Shikishima) rispondo che è come un fiore di ciliegio selvatico (Yamazakura) ai primi raggi del Sol Levante (Asahi)”. Assieme allo studio delle nuove tattiche d’impiego, fu naturale per questi piloti-Samurai il (ri)scoprire un inizialmente complesso cerimoniale che trovava le sue radici nelle millenarie tradizioni militari e ideali del Bushido.
Il momento dell’azione non tardò ad arrivare: i primi attacchi dell’unità si verificarono tra il 25 e il 26 ottobre 1944 durante la Battaglia del Golfo di Leyte, quando diverse ondate di aerei Kamikaze – con una guidata dallo stesso comandante Seki – si lanciarono sull’imponente flotta d’invasione americana, formata da più di 300 navi (comprese 34 portaerei) scortate da 1.500 aerei, contro la quale la una volta potente Marina Imperiale poteva schierare solo 60 navi (e una sola portaerei) e 300 aerei. Penetrando tra il tiro di sbarramento dell’antiaerea e della disorientata caccia americana, i Kamikaze centrarono la portaerei St. Lo, affondandola, e colpirono altre sei portaerei danneggiandole, colpendo altre 40 navi affondandone 5, causando buona parte delle 3.000 perdite in uomini della US Navy in questa battaglia.
La prova del fuoco dell’Unità d’Attacco Speciale era stata quindi coronata da successo, e essa fu rapidamente ampliata, visto anche il grande numero di piloti volontari che si resero disponibili per questa nuova arma che sembrava promettere un raggio di speranza nella difesa del Giappone dall’invasione americana incombente.
Le operazioni Kamikaze si espansero di conseguenza, sia con lo studio e l’introduzione di nuove armi, sia antinave (come delle bombe razzo guidate o dei siluri pilotati) che antiaeree (piloti sommariamente addestrati avrebbero dovuto schiantarsi contro i bombardieri americani in volo), sia con l’impiego sempre più massiccio degli aerei Kamikaze nelle battaglie aeronavali nel Pacifico.
Questo impiego culminò nella Battaglia di Okinawa dell’aprile-giugno 1945, quando centinaia di piloti giapponesi cercarono di far schiantare i propri velivoli contro i cacciatorpediniere e le portaerei nemiche, scontrandosi però con nuove tattiche d’intercettazione degli aerei da caccia USA e con i proiettili con spoletta di prossimità delle armi contraeree navali a tiro rapido. Il risultato fu che più di 30 navi Alleate furono affondate o danneggiate gravemente (ma nessuna portaerei o corazzata era tra queste – di nota che le portaerei inglesi, con il ponte di volo corazzato al contrario di quelle dell’US Navy, resistettero senza danni sostanziali a più attacchi Kamikaze) e i giapponesi avevano perso la cifra astronomica di 1.465 aerei.
La battaglia di Okinawa rappresentò quindi il canto del cigno dei Kamikaze, che furono usati sempre meno da quel momento e fino alla resa del Giappone dopo le due bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki.
Prima di questa débâcle, le missioni Kamikaze avevano dimostrato la loro efficacia militare nel difficile compito di sfidare la superiorità numerica e tecnica aeronavale Alleata: il 14% degli attacchi Kamikaze colpiva le navi nemiche, mentre meno della metà degli attacchi convenzionali degli aerei giapponesi superava le difese antiaeree nemiche. Quindi, dal punto di vista individuale dei piloti coinvolti la scelta Kamikaze non rispondeva solo a un anelito spirituale, ma anche a una scelta lucida di impiegare sé stessi, una volta in gioco sino alla fine, con l’arma che maggiormente garantiva di far danno al nemico. Inoltre, paradossalmente, in alcune battaglie fu maggiore l’indice di sopravvivenza delle unità Kamikaze che di quelle convenzionali (!); infatti non sempre i piloti Kamikaze, sempre meno addestrati, trovavano le navi nemiche a causa di errori di navigazione, avverse condizioni meteo, etc. e tornavano quindi indietro ai propri aeroporti.
Questa trasformazione del pilota Kamikaze stesso è ben descritta dall’allora giovanissimo James G. Ballard nel suo Impero del Sole, quando gli orgogliosi e determinati piloti delle prime unità Kamikaze che si apprestavano a decollare per la loro ultima missione sui loro “Zero”, tra fasce e nastri votivi ricoperti d’eleganti calligrafie, serrandosi al fianco splendide Katane, e il complesso rituale della condivisione del sakè da tazze cerimoniali, salutati dai propri ufficiali e camerati piloti, si erano ridotti a giovanissimi piloti inesperti del 1945, montanti sui loro obsoleti e usurati aerei dopo una sorsata frettolosamente offerta e salutati distrattamente da qualche militare.
Ci pare giusto suggellare la storia di questi combattenti, del loro coraggio e dei loro ideali ricordando come un altro Samurai, questa volta d’Occidente, li evocava nel suo capolavoro:
Alla fine della seconda guerra mondiale, la morte volontaria ricevette in Giappone una consacrazione senza pari quando si esigette il sacrificio dei giovani kamikaze. Questo termine significa “Vento divino”, in ricordo di un tifone miracoloso che disperse nel 1281 una flotta di invasori mongoli. Una forza speciale di attacco aereo venne costituita nella speranza che degli attacchi suicidi contro le navi americane avrebbero potuto scongiurare l’ineluttabile. Il primo attacco ebbe luogo il 25 ottobre 1944. In tutto, 2.198 piloti si sacrificarono: 34 navi americane vennero affondate e 288 danneggiate. Pertanto, la potenza navale nemica non venne intaccata in modo grave. Per il suo ultimo volo, ogni kamikaze portava, stretto a sé, una sciabola tradizionale. Morte inutile? Forse. Ma di certo non assurda. Solo la morte subita non ha senso. Voluta, ha il senso che le diamo noi, anche quando è priva di utilità pratica.
Questa retorica non lascia insensibile l’anima europea; vi fa vibrare una corda segreta. Non è un caso se il suicidio rituale dello scrittore Mishima, avvenuto il 25 novembre 1970, ebbe una tale eco in Francia e in Europa dove, una volta, si era coltivato lo stesso distacco davanti alla morte.
Andrea Lombardi
4 comments
Una doverosa e storica puntualistica osservazione per la massa senza storia
L ultimo samurai, film con Tom Cruise, è uno dei miei film preferiti
Infatti, la differenza è enorme e forse si può sintetizzare in questi termini: i Kamikaze giapponesi furono soldati, indubbiamente folli per i nostri standard etici, ma sicuramente soldati, perché attaccavano obiettivi militari. I Kamikaze di Daesh e tutti quelli che attaccano obiettivi civili sono altrettanto folli ma non possono essere considerati soldati, sono soltanto spregevoli criminali di guerra, terroristi, appunto.
Certo che chi esigeva il loro sacrificio era responsabile della situazione in cui si era messo, e come al solito i vertici se ne stavano a fare i vertici e come dici tu stesso, mandavano a morire giovani ragazzi.