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Cavalcando il “conflitto epocale”: cosa può insegnarci il fenomeno Trump

by Sergio Filacchioni
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Trump

Roma, 6 nov – Donald Trump è di nuovo presidente degli Stati Uniti d’America. Sgombriamo il campo ad alcuni dubbi: Sì, ci deve interessare, volenti o nolenti gli Usa rimangono un attore geopolitico di primaria importanza che influenza – direttamente o di riflesso – il Continente europeo; Sì, la sua vittoria avviene con l’apparente (e spassoso) tracollo del mondo Dem euro-americano che in questi anni ha sposato wokeness e transfemminismo come colonne portanti di un’ideologia antifascista, più riformista (va detto) che massimalista; No, la sua vittoria non è minimamente “provvidenziale” ma frutto di una lucida lettura della realtà e di prassi comunicativa, ergo una vittoria di linguaggio; No, la sua rielezione non rappresenta la “vittoria del popolo contro le elitès” o il “trionfo del mondo multipolare”.

Inquadriamo il fenomeno Trump

Donald Trump vince in maniera netta, polverizzando Kamala Harris e la sua debole leadership: tutta la narrazione messa in pedi sull’opposizione “Donne Vs Maschio” e la questione di genere è andata a farsi benedire, per l’ennesima volta. Risulta ormai evidente che la realtà è più brutta e sporca di un salotto televisivo: il “neo-moralismo” woke rappresenta solo sé stesso e non ha seguito. Forse siamo rimasti solo noi a dargli più credito di quanto in realtà ne abbia. Di contro, una comunicazione impostata esclusivamente sul dare del “pazzo” – e dei “pazzoidi” – a Trump e i suoi elettori non ha fatto altro che favorire il suo linguaggio: forte, diretto, magari “illetterato” ma sicuramente intelligibile da quella America che è stata presentata ora come rozza, ora come “spazzatura”. Forse un romanzo di McCarthy aiuterebbe molto di più a capire gli Usa che non un saggio di Judith Butler. Insomma la realtà non si cura delle polluzioni notturne degli intellettuali, opinionisti e agenti culturali vari: Trump e il suo establishment miliardario, che va dal Pentagono alle Big Tech, lo hanno capito molto bene. Possibile che solo noi non riusciamo ad intenderlo? Negli Usa perde un discorso ideologico – il wokismo che in questi anni è diventato più apparenza che sostanza – con cui i democratici (compresi quelli Europei) si sono interamente identificati, senza accorgersi che il malcontento reale è un altro. E forse non avevamo tutti i torti quando a gennaio vi dicevamo che proprio il mondo economico, “turbo-capitalista” e tecnologico (quello che oggi ha reso di nuovo Trump presidente) era quello che stava “scaricando” le velleità del woke per lasciarlo relegato solo alla sempre più povera Hollywood. C’è quindi un’interpretazione migliore di quella binaria “working-class contro élites” per accompagnare un’analisi sul voto a Trump e che non risulta del tutto scema, ovvero: dalla classe operaia alla grande finanza, dagli immigrati alle donne, tutti lo hanno votato.

Creare una dimensione conflittuale

Quel che ci interessa quindi è proprio la “dimensione conflittuale” che Trump e il suo sistema è riuscito da una parte a sfruttare e da una parte a creare. La dimensione del conflitto tra due opposte tendenze, tra due modi d’intendere gli Stati Uniti. Ben inteso, non vuol dire che queste due tendenze esistano scientificamente e naturalmente come un organismo biologico, e soprattutto non vuol dire che valgano anche per noi Italiani/Europei: esistono nel racconto che ne è stato fatto, alimentato anche e soprattutto da quel metodo di comunicazione “primitivo” adottato da entrambe le parti. Insomma Trump, spinto sia dai suoi che dai suoi nemici, è riuscito a passare per il messia venuto a sanare il mondo da guerre e carestie scacciando dal Tempio i progressisti woke. Perché non viene sfruttata anche qui in casa questa dimensione conflittuale, ma anzi ci ritroviamo un centrodestra sempre pronto a smussarsi rispetto all’agenda democratica dei diritti civili? Perché gli esponenti del Governo, della cultura, dei media, sono sempre pronti a cedere al ricatto antifascista? Perché si ha paura di prendere di petto immigrazione, controllo dell’economia, natalità – che è ciò che la realtà popolare veramente vuole? Perché non abbiamo anche noi un becerissimo Hulk Hogan pronto a fare il maschio alfa in diretta nazionale ma solo “intellettualoidi” senza spina dorsale? Ma soprattutto, abbiamo un’élite economica pronta a sposare queste battaglie – anche solo per convenienza? Tutte domande aperte, ovviamente. Forse quella Statunitense è un tipo di politica troppo rozza, barbara e incivile. Forse sì. Ma in un mondo barbaro come quello in cui stiamo vivendo si rischia di rimanere Harris – cioè in silenzio tombale – di fronte ai Trump che hanno inteso quel “conflitto epocale” di cui parlò Giorgio Locchi. Da questa dialettica d’altronde non si sottrae nemmeno la sinistra, che anzi è molto brava ad affondare senza paura colpi su colpi pur di mantenere intatta la sua egemonia culturale. Ci è maestro, appunto, il filosofo romano: “Chi appartiene alla tendenza egualitarista […] ‘crede’ o ‘sa’ di essere nel giusto e nel vero. Egli sa dove la storia irresistibilmente e ineluttabilmente è diretta: alla fine che inaugura la post-storia” e continua “Non esiste alcuna verità storica. Se esistesse, allora non ci potrebbe essere storia. La verità storica è sempre da conquistare e da realizzare”. Si può far discendere da questa presa di coscienza una comunicazione, un atteggiamento e una prassi politica che affondi l’attacco al ventre molle del progressismo egualitarista che sta perdendo il contatto con la realtà ma non la presa sulla politica? Risposta: Fight! Fight! Fight!

Sergio Filacchioni

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