Los Angeles, 13 apr – Scegliere un momento per celebrare l’addio alla pallacanestro giocata di Kobe Bean Bryant è un’impresa monumentale. Sull’etere, sui giornali, sui media, su cellulosa e nei ricordi 20 anni di carriera – passati esclusivamente in California – due decadi di canestri decisivi, titoli vinti ed occasioni perse, ma sopratutto un’era in cui Black Mamba ha rivoluzionato l’approccio al parquet di ogni singolo giocatore.
Forse il momento più alto, in termini di talento puro, della carriera del numero 24 in maglia Los Angeles Lakers ci arriva dal 9 dicembre 2009 contro i Miami Heat. I gialloviola, che giocano tra le mura amiche, sono in svantaggio di due punti, 107 a 105, quando sul cronometro mancano 3,2 secondi allo scadere. Il pallone è tra le mani di Ron Artest – non ancora Metta World Peace – pronto a battere la rimessa laterale. La palla a spicchi scotta, Artest aspetta, aspetta ancora e poi consegna la sfera a Bryant. L’asso di Philadelphia ha difficoltà nel controllo, fa una finta, ma sente il fiato sul collo di Dwyane Wade così alza gli occhi per guardare Derek Fisher, ma ha già deciso bisogna tentare il tutto per tutto. Uno, due, tre palleggi poi due passi, quasi invisibili e l’elevazione da dietro l’arco in caduta all’indietro alla sua sinistra, mentre il diretto marcatore vola per stopparlo. La palla si libra nel cielo a formare un arcobaleno, rilasciata verso un destino che si ripete, sempre uguale nei momenti che si fanno leggenda, sbatte contro il tabellone ed accarezza il cotone della rete. I Lakers vincono 108-107, tutti intorno al proprio capitano ad abbracciarlo e lo Staples Center va in visibilio.
Una carriera immane fatta di cinque titoli vinti, due ori olimpici, una volta MVP stagionale, due volte MVP delle finali, undici volte inserito nel primo quintetto NBA e per diciotto occasioni sceso in campo durante l’NBA-All Star Game. Diventa fin noioso leggere l’albo d’oro, interminabile, del fu numero 8.
Cosa fa di Bryant l’icona di questi anni? Due fattori lo hanno reso pilastro dello sport. Kobe ha portato su un altro piano il concetto di “killer instinct” – l’istinto omicida – dello sportivo, non è stato il più preciso con il pallone da gestire, spesso ha prevalso la sua vena egoista, in diverse circostanze ha umiliato i compagni, ma lo ha fatto per un solo scopo: la vittoria. Accecato dalla luce di essere il migliore e di stuprare se stesso pur di mettere in campo ogni articolazione, ogni istante, ogni movimento fatto con il fine del trionfo. L’ossessione divenuta mostro sacro. Infine ha dovuto sostituire, immediatamente, nell’immaginario collettivo giocandoci contro nei primi anni di carriera, la figura di Micheal Jordan. Un compito simile avrebbe accartocciato chiunque, non Mr.81 (come i punti, seconda miglior prestazione di sempre, rifilati nel 2006 ai Toronto Raptors). Pensate a Lionel Messi giocare con la pesante ombra, sul rettangolo verde, di Diego Armando Mardona, si sarebbe accasciato assieme alle sue crisi di vomito tra un tempo e l’altro.
Gli istanti sono volati, gli occhi inebriati di talento piangeranno quando alle 4:30 di giovedì 14 aprile, orario e giorno italiani della partita di addio dell’emblema dei Lakers, scatteranno contro gli Utah Jazz l’ultimo avversario prima della parola fine. Eppure in ogni singolo fotogramma Kobe rimarrà “per sempre quel ragazzo con le calze tirate su, bidone della spazzatura nell’angolo, 5 secondi da giocare. Palla tra le mani. 5, 4, 3, 2, 1”, ed un grido nell’orecchio “Kobe Bryant win the game”.
Lorenzo Cafarchio