Londra, 25 giu – Don’t Go Away. Questo il grido dell’Unione Europea rivolto alla perfida Albione, sulle note degli Oasis. Ed invece l’Inghilterra saluta la compagnia, Brexit docet, dei palazzi di cristallo con sommo gaudio di Nigel Farage e Boris Johnson. Ma anche di Sol Campbell, ex difensore dell’Arsenal, che guardando alla Premier dice: “Penso all’altra faccia della medaglia: un minor numero di stranieri favorirà i giovani calciatori inglesi. Guardate le cifre: il numero dei calciatori selezionabili per la nazionale è bassissimo, il più scarso in assoluto tra le grandi nazioni del football”.
Si sta parlando parecchio di Premier League in questi minuti, accarezzando la svalutazione della Sterlina e strappandosi i capelli pensando ad un passato smaterializzato, in una sorta di sliding doors con il torcicollo, salutando talenti come Cesc Fabregas, Cristiano Ronaldo, Eric Cantona e gli attuali Dimitri Payet e N’golo Kanté. I media assieme all’amministratore delegato del massimo campionato d’oltremanica, Richard Scudamore, diventano vittime del giogo dell’articolo 19 della Fifa, quello che vieta i trasferimenti internazionali di giocatori con età inferiore ai 18 anni. Nel terzomondismo, dalla banlieue alla City, del pallone internazionale un tackle da dietro, a piedi uniti, alla Vinnie Jones.
Sui rettangoli verdi della Premier sono 388 su 595 – pari al 65,2% – i giocatori stranieri che calcano i prati, ovviamente primatisti in questa classifica tra i campionati del Vecchio Continente, ed il voto leave di giovedì ha scosso il presidente del West Ham, Karren Brady, rammaricandosi del mancato “libero accesso ai talenti europei che svantaggerebbe i club britannici rispetto a quelli continentali”. Dopo la conta dei calciatori, lo sguardo cade sul giro d’affari, vero motore di ogni azione uguale e contraria. La sorella della serie A parla chiaro, ogni anno contribuisce al Pil inglese con una cifra che si aggira attorno ai 3,4 miliardi di sterline, fornendo in tasse allo Stato 2,4 miliardi. Inoltre, l’accordo triennale – 2016-2019 – che riguarda le pay-tv farà cadere su Londra più di 5 miliardi di sterline, un pioggia con cui si bagneranno solo i volti “silvani” del football global.
A fronte delle cifre i padri del pallone possono benedire la Brexit, facendo professione di non far caso alla disperazione razionale dei mercati, perché nella follia dell’esterofilia a tutti i costi i sudditi della Regina Elisabetta possono tornare a rivestirsi di gloria. A partire dal campione d’acciaio Jamie Vardy, l’operaio divenuto d’oro dopo il titolo conquistato con il Leicester di Claudio Ranieri, impossessatosi delle luci della ribalta a 29 anni memore di una carriera passata nel polverone della categorie inferiori. La generazione Rooney, fino a ieri restava alla finestra perdendosi nell’apatia di quella targata Sterling, ora spera in un ritorno alle origini firmato british che riporta alla mente gli Alan Shearer, i Paul Gascoigne, i Gary Lineker, i Kevin Keegan e i Bobby Moore salutando – ma anche no visto che qualche scorciatoia la troveranno, troppo grande per fallire il progetto globale Premier – la corrente irreversibile del mondo obbligato a chinarsi al “nuovo” che avanza.
Lorenzo Cafarchio