Roma, 24 feb – Tra pochi mesi si terrà in Gran Bretagna un referendum sulla permanenza nell’Unione Europea: una consultazione voluta fortemente da Cameron, che ha condotto estenuanti trattative per garantire a Londra una serie di benefici e deroghe ai trattati europei per rimanere nell’Unione.
Viene a questo punto da chiedersi che senso abbia tenere insieme i cocci di una istituzione sempre più debole e disorganizzata. Tra le richieste inglesi più pressanti ci sono state una protezione speciale per la City, il cuore finanziario britannico, e una limitazione temporanea per i benefici sociali ai lavoratori provenienti dall’estero. Due fattori che mettono pesantemente in discussione tutta l’impalcatura ideologica e politica su cui dovrebbe basarsi l’Europa. Insofferenze che sorgono nel preciso momento in cui epocali migrazioni di massa hanno messo gli Stati europei “tutti contro tutti”: pensiamo solo al blocco francese a Ventimiglia nei confronti degli immigrati provenienti dall’Italia. L’Austria è stata l’ultima nazione in ordine di tempo ad aver messo in discussione Schengen, dopo i muri e le plateali chiusure di Polonia e Ungheria. La libera circolazione non è più un dogma, i confini non sono più un tabù. L’Europa celebrata e descritta da larghe fasce di politici e mass media (pensiamo agli sfacciati spot europeisti della Rai) sembra esistere solo nei sogni. Dopo decenni di sforzi delle elites europee, abbiamo assistito al regolare fallimento dei più importanti appuntamenti della storia: dalla Jugoslavia negli anni ’90 fino alle assurde sanzioni imposte alla Russia. L’idea di un’Unione capace di porre fine alle guerre è stata vera solo in parte: i conflitti sotterranei e commerciali sono continuati all’ultimo sangue, alcune nazioni sono state ricattate e commissariate (Monti l’esempio peggiore), altre ridotte sul lastrico, come la moribonda Grecia. Non solo: paesi come la Francia hanno continuato a perseguire i loro interessi in Africa con una serie di interventi militari che hanno danneggiato tutti gli alleati, Italia in primis. In Libia la destituzione di Gheddafi ha colpito gli interessi dell’Eni e portato il caos nella nazione, al momento invasa dai fondamentalisti islamici. Infine l’euro continua a mostrare le sue pecche: “Il progetto di integrazione monetaria è stato utilizzato per orientare in senso neoliberista le politiche nazionali. Le “riforme” che “ci chiede l’Europa” alla fine si riducono a una sola: quella del mercato del lavoro, pensata per deregolamentarlo e, badate bene, in assenza di qualsiasi riforma del mercato finanziario” ha scritto puntualmente Alberto Bagnai.
D’altro canto già Bettino Craxi aveva ammonito sui rischi di un’Europa a trazione liberista: “Affidare effetti taumaturgici e miracolose resurrezioni alla moneta unica europea, dopo aver provveduto a isterilire, rinunciare, accrescere i conflitti sociali, è una fantastica illusione che i fatti e le realtà economiche e finanziarie del mondo non tarderanno a mettere in chiaro“. Lo stesso politico che ricordò, in uno dei suoi proverbiali scatti d’orgoglio, che “i parametri di Maastricht non si compongono di regole divine. Non stanno scritti nella Bibbia, Non sono un’appendice ai dieci comandamenti”. In Italia tecnocrazia, vincolismo, impostazione economica anglosassone e “auto razzismo” sono stati i primi regali dell’Unione, a scapito delle nostre eccellenze industriali e sociali, con il Ttip di marca americana che incombe. Ma il “tempio vuoto” (Federico Nicolaci) rappresentato da Bruxelles e dalle burocrazie economiche non è riuscito a fare totalmente presa sulla popolazione, tanto che il vento populista e la contestazione, seppur spesso “epidermica”, verso le istituzioni Ue aumentano sempre più. Interrompere questo processo di integrazione potrebbe essere l’occasione per disegnare nuove politiche sociali, demografiche e industriali, dopo anni di crisi e austerità. La distruzione della sovranità popolare e statale sognata da Von Hayek e Spinelli non è ancora compiuta.
Agostino Nasti
1 commento
Bisogna però riuscire a rendere più consapevole la massa, trasformando la sua protesta e la sua insofferenza da “epidermica” a profonda.