Quarta puntata della nostra inchiesta sulla crisi del sistema bancario italiano.
Le puntate precedenti:
- Bancarotta/1 Banche: la prossima grande crisi italiana?
- Bancarotta/2 La crisi delle banche? Non è proprio tutta colpa…delle banche
- Bancarotta/3 Dalla Legge Bancaria del ’36 a Draghi: nuove crisi e vecchi errori
Roma, 31 gen – Le banche popolari stanno vivendo un momento difficile. In particolare, Popolare di Vicenza e Veneto Banca hanno polverizzato 11,5 miliardi di euro. Inoltre, ad unire i due istituti di credito, oltre alla vicinanza geografica, c’è soprattutto il Fondo Atlante che ha il compito di evitare il crack del sistema creditizio italiano. Oggi ci sarà una riunione congiunta dei consigli di amministrazione della Banca Popolare di Vicenza e di Veneto Banca. Al primo punto dell’ordine del giorno vedremo probabilmente un primo schema del progetto di fusione, con un affinamento delle stime sul fabbisogno di capitale che si potrebbe generare dalla svalutazione e scorporo dei crediti deteriorati. Inoltre, il nove gennaio scorso i Cda delle due banche popolari avevano proposto ai soci raggirati una transazione benevola. In particolare Pop Vicenza ha promesso un indennizzo forfettario di 9 euro per azione, mentre Veneto Banca corrisponderà il 15% del valore dell’azione al momento dell’acquisto; l’offerta sarà valida fino al quindici marzo. Gli azionisti per ricevere questo “rimborsino” dovranno rinunciare ad ogni azione legale nei confronti delle banche. L’invito ai risparmiatori veneti non è affatto bonario. Infatti, se l’operazione di transazione con i soci non andasse in porto (cioè se non aderiranno almeno l’80% dei potenziali beneficiari), i soci probabilmente non vedranno neppure il 15% dato che il passo successivo sarà l’intervento dello Stato nel capitale della nuova banca che nascerà dalla fusione.
La proposta del management è chiara: si esce dalla crisi solo costruendo una “megabanca” e scaricando i costi dell’operazione sugli azionisti truffati. Probabilmente molti accetteranno per paura di perdere tutto, ma la fusione rischia di non risolvere nulla. La storia parla chiaro. Vediamo perché. Correva l’anno 1866, quando con decreto regio firmato da Eugenio di Savoia, luogotenente generale di Vittorio Emanuele II Re d’Italia, venne fondata la Banca Popolare di Vicenza. La sua funzione sociale ed economica era quella di tutelare i risparmi ed erogare il credito nel territorio vicentino. Dal 1993 dalla provincia di Vicenza, la rete degli sportelli si è man mano estesa all’intero Nord Est e quindi al Nord Italia. Insieme, tali realtà hanno dato vita al Gruppo Banca Popolare di Vicenza (1999), che in seguito si è dato un nuovo assetto organizzativo, proseguendo il progetto di espansione territoriale e ampliando la sua offerta. Nel 2014 il Cavalier Gianni Zonin, presidente dell’istituto di credito vicentino, così si rivolgeva agli azionisti in una storica missiva: “Egregio socio, qualche settimana fa la Banca Centrale Europea ci ha promosso in Europa fra i primi tredici più importanti gruppi bancari italiani. (…) Dagli stress test a cui la Bce ha sottoposto i nostri bilanci, siamo risultati una banca solida e fortemente patrimonializzata e che tale resterebbe anche di fronte a scenari macroeconomici ancora più avversi degli attuali”. Nel 2015 il Cavalier vicentino si è dimesso e oggi il valore delle azioni della Bpvi è crollato del 90%. Cosa era successo di tanto grave? Semplice. Si scopre che l’istituto di credito vicentino allo scopo di crescere presta soldi in cambio di prodotti finanziari complessi. In pratica, aveva spacciato carta straccia come si trattasse di monili d’oro. Il problema non è solo di natura giuridica. Non ci sono solo funzionari e dirigenti corrotti. Il vero malato è l’intero sistema di regolazione del credito.
In particolare, nel caso delle banche popolari è stato fatale aver reciso il legame con il territorio. Fino agli anni ’90, sulla base della legge del 1936, l’apertura di nuovi sportelli bancari doveva essere autorizzata dalla Banca d’Italia. A tal proposito, il direttore de La Finanza sul Web Giorgio Vitangeli circa un anno fa scriveva che: “Donato Menichella, (governatore della Banca d’Italia d’orientamento liberale) pose particolare cura affinché alle grandi banche fosse inibito di aprire filiali nei piccoli centri. La raccolta del risparmio e l’erogazione del credito nei centri minori, infatti, era riservata alle piccole banche locali”. Poi arrivò il duo Amato-Ciampi a liberare il credito dai lacci della burocrazia. Fu così che La Bpvi nel biennio 2000/2002 con il “Progetto Centro-Sud” acquistò Banca Nuova (sede a Palermo) e Banca del Popolo di Trapani. Cosa ci faceva una banca popolare vicentina a Trapani o a Palermo? Probabilmente avevano perso la bussola. Oggi i nodi vengono al pettine. E i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Stando ai dati riportati da Il Sole 24 Ore: “Il fallimento e il salvataggio di sette istituti di credito è costato ai risparmiatori ventiquattro miliardi di euro. Parliamo del Monte dei Paschi di Siena, delle due ex popolari venete (Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca) e delle quattro cosiddette good bank (Banca Etruria, Banca Marche, CariChieti e CariFerrara)”. Facendo due conti le perdite degli azionisti di queste banche equivalgono all’1,5% del Prodotto interno lordo italiano. Le perdite degli azionisti di queste banche equivalgono all’1,5% del Prodotto interno lordo italiano. Eppure nonostante quanto è stato scritto oggi si parlerà ancora di fusioni bancarie come panacea di tutti i mali. Evidentemente la storia per i banchieri non è “maestra di vita”.
Salvatore Recupero