Roma, 14 apr – Quando parliamo di figure femminili del ventunesimo secolo, spesso qualche “femminista” in ritardo butta in mezzo alle varie Sylvia Plath, Virginia Woolf e compagnia cantante qualche ammicco al mondo contemporaneo – insomma, qualcuno s’è spinto a definire Chiara Ferragni una figura di “rivincita” per noi donne, un simbolo del neofemminismo. Non me ne voglia la Ferragni, alla quale faccio tutti i miei complimenti per aver fatto dell’apparenza un business in un’epoca in cui pensavamo che l’immagine avesse dato tutti i profitti che poteva, ma anche come arbiter elegantiae vi sono centinaia di esempi che le possono essere anteposti. Perché la parola “eleganza” non si riduce solo alla valutazione del vestiario, ha un’accezione in più: l’eleganza di chi ha “dettato le regole” della moda nella storia del mondo “contemporaneo” era distinto (e se vogliamo ingegnoso) anche nello scegliere le proprie compagnie, i propri uomini – o donne – le proprie letture.
Se volete un’ispirazione per il vostro prossimo outfit – sempre ammesso che cerchiate dell’originalità nelle milioni di copie carbone della Ferragni che infestano i social – forse queste 5 donne che proponiamo oggi non potranno aiutarvi. Ma potranno darvi ispirazione per qualcosa di meglio – potranno spingervi ad essere originali. Non va mai fuori moda.
5) Louise Brooks
La Brooks è il simbolo per antonomasia della flapper, la ragazza disinibita dei ruggenti anni venti del secolo scorso che – cronache alla mano – non aveva niente da invidiare alle “trasgressive” di oggi. A lei si deve la diffusione dell’iconografia della “maschietta”: caratteri fisici efebici, caschetto nero, vestiti corti con le frange. Nei film degli anni venti, rigorosamente muti, su di lei era sartorialmente tagliato il personaggio della ragazza spavalda, teneramente coraggiosa, impertinente: insomma, la donna “nuova” che andava a sbaragliare il “vecchio” secolo. Quello dei corsetti, delle crinoline, delle piume e delle imbottiture. Un secolo “pruriginoso” che ormai perdeva di mordente contro la velocità delle donne come la Brooks, le donne da lei interpretate, figlie americane della “fame” con un piede nel futuro. Anche nella vita privata, non si fece mancare nulla: per sua stessa ammissione Louise era “sessualmente libera”: non si faceva alcun problema nel posare per “nudi artistici”. Le sue relazioni sentimentali nel mondo del cinema furono leggendarie all’epoca. Essa stessa arrivò a nutrire le speculazioni sul suo orientamento sessuale: tra le amicizie più profonde vi sono, infatti Pepi Lederer e Peggy Fears (dichiaratamente omosessuali). Ammise una notte di sesso con Greta Garbo. E il suo taglio di capelli “ispirò” la Valentina di Guido Crepax.
4) Dorothy Parker
Avete presente quando definiscono Selvaggia Lucarelli una “critica dei costumi”? E’ in quel momento che la Parker si mette a fare le piroette nella tomba. Dorothy ebbe una vita piuttosto movimentata – perse in giovane età la famiglia, ma mai il senso dell’umorismo. Giovanissima si fece notare come poetessa dai redattori di Vanity Fair e di Vogue ma ebbe fama, infine, con i suoi poemetti satirici per il New Yorker. L’autoironia – questa sconosciuta, verrebbe da dire pensando al genere femminile – e la presa in giro dei suoi problemi di cuore erano al centro delle sue composizioni: Dorothy tentò, nel corso della vita, almeno per tre volte il suicidio. Riuscì a mettere in rima – e in battute anche questo. Negli anni trenta la sua fama raggiunse il mondo del cinema: insieme a Robert Carson ricevette una nomination al Premio Oscar per la sceneggiatura del film È nata una stella (1937) di William A. Wellman – si, avete letto bene, quello “originale”, non il tedioso remake con Lady Gaga.
3) Kiki de Montparnasse
Kiki (al secolo Alice Prin) è l’anima stessa di Parigi – quella Parigi sporca, brulicante di vita, fatta di episodi torbidi e di miseria (un po’ come la città raccontata da Céline in Viaggio a termine della notte). “Disinibita” sin da piccola, iniziò dalla prima adolescenza a posare nuda per gli artisti. E ancora giovane, quindi, fu una figura centrale della vita artistica parigina, quella delle avanguardie. Tra i migliori amici della spregiudicata Kiki troviamo, infatti, Jean Cocteau, Francis Picabia e Tsuguharu Foujita. E’ stata protagonista del film cubista di Fernand Léger, Ballet mécanique. Nel 1929 diede alle stampe la sua autobiografia intitolata Souvenirs con una prefazione nientemeno che di Ernst Hemingway. Così l’autore di Festa Mobile introduce i ricordi di Kiki: “Se siete stanchi dei libri scritti dalle signore della letteratura per entrambi i sessi, questo è un libro scritto da una donna che non è mai stata una signora“. Lunga, turbolenta e sofferta fu la sua relazione con il fotografo dadaista Man Ray: immortale è la sua fotografia nell’opera Violon d’Ingres, in cui è ritratta con i tipici segni “ad effe” dello strumento musicale. Come a dire che una donna è uno strumento di piacere che può essere, bene o male, suonato. Kiki morì nel 1953 nella sua amata Parigi, dopo (e a causa) di una vita di eccessi: Foujita, l’ultimo dei suoi amici “artisti”, disse che con lei “finivano i giorni belli di Montparnasse“.
2) Valentine de Saint Point
Valentine è ben nota per essere l’autrice del Manifesto della donna futurista e la sua vita non ha fatto altro che abbracciare le istanze esposte nel manifesto. Giovanissima, si sposa con un professore di lettere più anziano di quattordici anni che la lascerà vedova pochi anni più tardi. Si risposa con Charles Dumont, da cui accetterà un “divorzio con colpa” una manciata di anni dopo, e accetta tale colpa per poter essere libera di vivere la sua “libera unione” con Ricciotto Canudo. Canudo era un poeta, colui che definirà il cinema “la settima arte” e autore del Manifesto dell’arte cerebrista. Valentine si dedicherà, quindi, a tutte le forme dell’arte: danza, fotografia, scultura, e via dicendo. Scrittrice prolifica, nel 1905 pubblica le sue poesie in una raccolta detta Poèmes de la Mer e du Soleil poco dopo invece da alle stampe il suo romanzo, o per meglio dire una trilogia sull’Amore e sulla Morte: Un Amore I”: i titoli seguenti sono Un Incesto: II e Una morte III. Le Poèmes d’Orgueil , sua raccolta successiva, trovarono in Guillaume Apollinaire un appassionato lettore. Il pittore liberty Alphone Mucha la elesse a sua musa, così come August Rodin. Nel 1912, per rispondere all’articolo 9 del Manifesto futurista di Filippo Tommaso Marinetti che proclamava l’amore per la guerra e il disprezzo per le donne, Valentine scrive Il manifesto della donna futurista (lo stesso Marinetti dopo averlo letto, la volle nella direzione del movimento futurista). Ad esso segue il Manifesto Futurista della Lussuria, in cui scriverà: “Bisogna fare della lussuria ciò che un essere raffinato e intelligente fa di se stesso e della propria vita; bisogna fare della lussuria un’opera d’arte“. Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale si arruolerà come infermiera per soccorrere i soldati: tuttavia dopo aver conosciuto alcune dinamiche “sfruttatrici” della Croce Rossa, rinuncerà a tale impegno. Si trasferisce prima negli Usa e poi in Egitto, dopo si convertirà all’Islam. In Egitto diventa un riferimento dei nazionalisti (all’epoca, andando contro gli interessi dei francesi e degli inglesi). Diverrà amica di Renè Guenon e ne condividerà gli studi: rimarrà in Egitto sino alla morte.1) Marchesa Luisa Casati
Luisa era a dir poco privilegiata: discendente del produttore di cotone Alberto Amman, visse nell’ozio e nei vizi la sua infanzia milanese. I genitori morirono molto giovani e Luisa e sua sorella divennero ricchissime in giovane età. Nel 1900 Luisa sposerà il marchese Camillo Casati Stampa di Soncino: questo, però, non le impedì di intavolare una scabrosa relazione con Gabriele D’Annunzio, che all’epoca fece molto scandalo. Luisa adottò da lui una nuova forza: divenne un personaggio incredibile, dal trucco vistoso e dai vestiti sempre ricercati e particolari. Innamorata di Venezia, decise di acquistare, all’epoca in abbandono. Le sue feste erano leggendarie: per una di loro, ebbe “bisogno” addirittura di tutta piazza San Marco. La leggenda (che forse leggenda non é) narra che Luisa amasse passeggiare per le vie di Venezia coperta da un mantello ma, per il resto, completamente nuda. A quanto pare, vi era un servitore addetto a reggerle una lampada davanti – in modo che i passanti potessero ammirarla bene. Tra gli animali domestici che la Marchesa teneva nei giardini di Palazzo Venier vi erano pavoni, corvi e ghepardi. Sempre dando fondo alla sua incredibile ricchezza, nel 1923 acquistò a Parigi un palazzo da lei rinominato Palais du Rêve. Ma la vita le presentò il conto: nel 1930 aveva ormai un debito di 25 milioni di dollari. Dovette vendere il palazzo, e tutti i suoi averi, per fare vela verso Londra. Morì qui nel 1957, in povertà. Ma visse d’arte e non tutta la sua preziosa ricchezza se ne andò in fumo in debiti e acquisti sfarzosi. Luisa fu una mecenate, nel senso vero della parola: sosteneva ed elargiva fondi ad artisti emergenti come Giovanni Boldini, Giacomo Balla, Man Ray, Cecil Beaton. Tutti coloro che sarebbero andati a formare l’avanguardia artistica nelle sue varie forme. Marinetti, Depero e Boccioni la elessero a musa: l’epitaffio sulla sua tomba mutua una frase di Shakespeare, e la descrive così: “L’età non può appassirla, né l’abitudine rendere insipida la sua varietà infinita“.
Ilaria Paoletti
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