Roma, 26 giu – Altri cinque anni di Ursula Von der Leyen alla guida della Commissione Ue, certamente, non saranno una passeggiata. Al di là delle riserve e critiche aperte della praticamente certa riconferma dell’attuale presidente, la riflessione vera andrebbe indirizzata sulle possibilità della struttura in cui ci troviamo a dover soffrire da decenni. Può davvero un presidente della Commissione differente cambiare le carte in tavola in un banchetto rifornito di cibo marcio?
Von der Leyen, il rinnovo e il “patto” con Meloni
Come riporta l’Ansa, ormai i giochi sembrano fatti. Lo erano, a dir la verità, già il giorno dopo il voto, visto che nonostante il calo di consensi dei governanti francesi e tedeschi, la “maggioranza Ursula” c’è ancora. E le trattative per i cosiddetti “Top Jobs”, ovvero i ruoli chiave delle istituzioni europee (dal presidente della Commissione, a quello del Consiglio o del Parlamento, ai vice e ai responsabili per la politica estera) praticamente già concluse. Negoziati a cui hanno partecipato Emmanuel Macron, Olaf Scholz, Pedro Sanchez, Kyriakos Mitsotakis, Donald Tusk e Mark Rutte, ma non Giorgia Meloni. E questo lascerebbe suppore il solito “isolamento” su cui troppo facilmente marciano le opposizioni quando al governo non ci sia un classico rappresentante della sinistra liberal-progressista nostrana. Certamente, non si tratta di una buona notizia, ma non sembra nemmeno così tragica, considerato che il presidente del Consiglio avrebbe ottenuto una “rassicurazione”: la Von der Leyen, in cambio del suo appoggio, le dovrebbe assicurare un “portafoglio di peso” proprio nella prossima Commissione (il quale, secondo Bloomberg, dovrebbe concretizzarsi nella vicepresidenza esecutiva).
L’illusione (o lo slogan) di “cambiare l’Europa dall’interno”
Si può “fare meglio” in Europa, o meglio nelle sedi Ue? Sicuramente sì. Del resto, analisti geopolitici più smaliziati e concreti, come possono essere i collaboratori di una rivista di approccio “scientifico” come Limes, lo dicono da anni: l’Ue, al netto delle favole sulle unità che vincono e le divisioni che perdono, è un campo di battaglia. E da questo punto di vista Meloni, sia pur lentamente, sta “giocando” alla guerra. Quanto meno rispetto a chi l’ha preceduta, l’attuale premier prova a districarsi e a chiedere contropartite. La debolezza culturale di non riuscire a imbastire un reale fronte comune con fronti decisamente interessanti come quello di Viktor Orban è forse il dato meno piacevole.
Al di là delle azioni politiche discutibili o quanto meno incerte dell’attuale governo di Roma, il punto è sempre lo stesso: è anzitutto la struttura ad essere troppo marcia per costituire un orizzonte di reale cambiamento. Non solo per i parametri folli di Maastricht ma per la stessa filosofia che la anima. Già di per sé un approccio che nega la libertà degli Stati di “aggiustare” le proprie politiche economiche in senso espansivo o meno è fortemente insostenibile (perfino gli Stati Uniti, ovvero il simbolo del liberismo più estremo, sono in grado di muoversi su quell’irrinunciabile asse, come avvenuto nel senso di una massiccia spesa pubblica sia nel 2008, con la crisi dei mutui, sia nel 2022 alla fine della pandemia Covid). ma anche la sola impostazione economicista rende la gabbia europea estremamente fragile, rendendo di fatto le nazioni che ne sono prigioniere le più deboli dello scacchiere globale, ovviamente più vunlerabili dei loro diretti padroni oltreoceano, ma anche dei Paesi al di fuori della sfera d’influenza americana e in diretta concorrenza con Washington. Insomma, è l’Ue stessa ad essere un problema, che sia governata dalla Von der Leyen o meno. L’llusione – o lo slogan – di “cambiarla dall’interno” si commenta da sola.
Alberto Celletti