Roma, 12 feb – Quando parliamo di epica, ci vengono in mente i grandi poemi classici come l’Iliade, l’Odissea e l’Eneide; oppure il frastagliato immaginario nordico del Beowulf, dell’Edda, dei Nibelunghi; o magari le cavalleresche Chansons de geste, come quella che celebra le eroiche imprese di Orlando. Ebbene, anche l’Akbarnama evoca scenari onusti di valore e di gloria. Ma il paesaggio è decisamente esotico perché, composta da Maulana Hamid Kashmiri in un persiano magniloquente, negli anni Quaranta del diciannovesimo secolo, la storia di Wazir Akbar Khan celebra la resistenza afghana contro gli invasori inglesi.
Aggiungo che il poema di Kashmiri è uno dei pochi superstiti di quella che “verosimilmente fu all’epoca una ricchissima produzione poetica dedicata alla vittoria afghana, trasmessa per lo più oralmente da cantore a cantore e da bardo a bardo: dopo tutto, per gli afghani, la vittoria sugli inglesi fu una liberazione quasi miracolosa, come le battaglie di Trafalgar, Waterloo e d’Inghilterra messe insieme”. Così scrive in Il ritorno di un re (Adelphi, pp. 663, euro 34) William Dalrymple, che, nato in Scozia nel 1965, formatosi come storico a Cambridge e autore di numerosi saggi sull’India e sull’Asia Centrale, vive in una fattoria nei pressi di Nuova Delhi. Dove riflette su corsi e ricorsi della storia. E dunque su quel che è guerra e invasione, resistenza e liberazione, termini, come è noto, quanto mai plasmabili, allorché si intende accordarli alle esigenze dei vincitori e mostrare/dimostrare come i vinti avessero torto.
Qui, però, la faccenda è molto più complessa di uno schema vincitori-vinti. Infatti ha al suo centro quello che già Rudyard Kipling nel suo romanzo Kim (1901) definiva “Il Grande Gioco”, ovvero la “partita a scacchi” per il controllo dell’Asia Centrale, che impegnò l’Inghilterra e la Russia per buona parte dell’Ottocento. In Afghanistan, in particolare, la Gran Bretagna intervenne pesantemente nelle contese dinastiche per raggiungere i propri obbiettivi all’insegna della politica di espansione e di potenza, insomma, del colonialismo e dell’imperialismo. A partire dalla prima guerra afghana (1838-42). Perché altre due ce ne furono: nel 1878-79 e nel 1919, quando il trattato di Rawalpindi sancì l’indipendenza del Paese sotto l’emiro Aman Ullah. E poi… Poi un intrecciarsi di conflitti, tentativi di modernizzazione, colpi di Stato, interventi militari, fino alla “materia” più recente, cioè all’invasione sovietica nel 1979 e alla resistenza dei guerriglieri “mujaheddin” che, con tanto di appoggio dell’Occidente democratico e capitalista, allora speranzoso, conquistano il controllo del Paese; fino ai giorni nostri con l’integralismo talebano che imperversa e gli Stati Uniti, la Nato e l’Occidente democratico e capitalista, ora turbato, se non disperato, che cercano ragioni per non andarsene “umiliati e offesi”.
Bè, Dalrymple accenna di sfuggita alla situazione afghana “hic et nunc” perché illumina gli scenari dei primi incontri/scontri ottocenteschi. Però le suggestioni “attualizzanti” ci sono tutte… Guardiamo: nel 1839, un’armata britannica di circa ventimila uomini invade l’Afghanistan per insediare sul trono del Paese un sovrano fantoccio, Shah Shuja, dinastia Sadozai, e contrastare così la temuta espansione russa in Asia Centrale. Siamo di fronte alla “prima disastrosa intromissione dell’Occidente in Afghanistan”. E ci accorgiamo che contiene “ echi distinti delle avventure coloniali dei nostri giorni”. “Anche la guerra del 1839- scrive Dalrymple- fu dichiarata sulla base di informazioni falsificate in merito a una minaccia pressoché inesistente: la notizia di un singolo inviato russo a Kabul fu ingigantita e manipolata da un gruppo di falchi ambiziosi e ideologizzati per agitare uno spauracchio- in quel caso, una fantomatica invasione della Russia”. Ma cosa accadde? Accadde che, meno di tre anni dopo, l’appello al “jihad”, cioè alla guerra santa, da parte del re spodestato, Dost Mohammad, della dinastia dei Barakzai, attivò una fiera resistenza e costrinse gli inglesi a una terribile ritirata in pieno inverno attraverso i gelidi passi dell’Hindu Kush. Solo in pochi riuscirono a sopravvivere al freddo, alla fame e alla determinazione guerriera della fanteria afghana, armata dei dei devastanti “jezail”, moschetti pesanti e scomodi da caricare, ma precisi e letali a lunga distanza nelle mani di tiratori esperti.
I guerrieri afghani lo erano e la poesia epica avrebbe cantato la loro lotta. Animata dal coraggio dell’”amir” (comandante dei credenti) Dost Mohammad che, si legge nell’”Akbarnama”, “cinse i lobi per combattere il nemico/ andò in cerca del suo esercito disperso/ radunò cinquecento cavalieri capaci di brandir spade in battaglia…”. Dalrymple racconta questa storia, attingendo a fonti in persiano, russo e urdu, compresa la biografia di Shah Shuja, figura tragica quant’altre mai: insediato sul trono come fantoccio dalla Compagnia Britannica delle Indie Orientali, quando cercò di esercitare il potere in maniera autonoma, fu estromesso e umiliato, e alla fine abbandonato dal suo stesso figlioccio. Ma la guarnigione britannica di stanza a Kabul andò incontro alla morte, mentre il re Dost Mohammad ritornava nella capitale, aureolato di gloria.
Mario Bernardi Guardi