Roma, 9 lug – Il 9 luglio 2006 è una data scolpita nella biografia sportiva di questa nazione. Dopo l’inchiesta “calciopoli” i calciatori della nazionale italiana, subissati e bistratti dalla stampa estera, trattati come i peggiori criminali di una cosca mafiosa, si “strinsero a coorte” e dimostrarono per l’ennesima volta che il vero spirito italiano esce fuori quando meno te lo aspetti, quando tutto sembra remarci contro, quando sembra che non ce la si possa fare. Il 9 luglio 2006 ci laureammo per la quarta volta campioni del mondo, battendo in finale la Francia dopo i calci di rigore e dopo aver compiuto in semifinale l’impresa di battere la Germania padrone di casa nello stadio dove non aveva mai perso.
Era una nazionale stratosferica quella di Lippi, che in campo aveva eccellenze tecniche come quelle di Pirlo, Totti e Del Piero. Ma era anche la nazionale di combattenti come Gattuso, Cannavaro (Cannavaro!) e Barzagli e Buffon che tutt’ora rappresentano (purtroppo ancora per poco) la salda ossatura della nostra compagine. Come poter dimenticare le lacrime di Pirlo, uno che difficilmente si lascia andare a facili sentimentalismi, o Gattuso che prende per il bavero della polo Lippi “implorandogli” di rimanere ancora su quella panchina. Come dimenticare le appassionate telecronache di Caressa: da “andiamo a Berlino Beppe” fino a “abbracciamo forte e vogliamo tanto bene perché oggi è più bello essere italiani”. Certo, potrà sembrare una frase banale, da italiota patriottardo e che espone il tricolore al balcone solo quando gioca la nazionale, ma chi può giurare di non essersi emozionato come il telecronista di Sky quando il tricolore (se pur nel calcio) è arrivato per la quarta volta sul tetto del mondo?
Aurelio Pagani