Roma, 28 nov – I recenti fatti di Capalbio, in cui vacanzieri radical chic e ben dotati dal punto di vista monetario sono riusciti ad imporre l’assenza delle quote precedentemente previste di immigrati, possono essere un’occasione ghiotta per riflettere sul significato reale della loro natura, che come vedremo non è tanto politica quanto psicologica.
Innanzitutto, bisogna partire dalla desinenza “radical”, che nel mondo anglosassone indica la corrente di sinistra del movimento liberale. Questa premessa è molto importante: liberale, non sociale o addirittura socialista. Il radical chic è quindi, in primo luogo, del tutto avulso rispetto a questioni quali Stato sociale, piena occupazione, stabilità del rapporto di lavoro subordinato, dirigismo economico, protezionismo sociale. Semplicemente, non gli interessano. In secondo luogo, “chic” evoca quasi istintivamente il benessere economico unito ad un certo vago snobismo, inteso non tanto come reale superiorità nel buon gusto quanto come ricerca spasmodica della differenziazione dall’altro, percepito come irriducibile da se. Iniziamo ad avvicinarci quindi alla questione, per la quale dobbiamo però interrogarci sulla natura intima dell’ideologia liberale, la quale si fonda su un’idea meramente emancipativa della libertà individuale. In pratica, il liberalismo vuole l’individuo libero “da” qualcosa, in primo luogo (ma non esclusivamente) dallo Stato con la sua pretesa eticità immanente e la sua natura normante e ordinatrice rispetto all’atomismo sociale. Possiamo anche vederla in un altro senso: il liberalismo è la visione del mondo di un sociopatico da manuale, che vede nel prossimo un potenziale nemico con cui associarsi solo ed esclusivamente per un proprio immediato tornaconto personale, aspettandosi che esso ragioni ovviamente nello stesso modo. Sociopatia, paranoia e tendenze manipolatrici, ecco il liberale perfetto che per fortuna esiste solo negli ospedali psichiatrici di quei paesi che non hanno avuto la sfortuna di dare retta ad un Basaglia qualunque.
Quindi il radical chic come si inserisce in questo schema? Semplice: il radical chic è il liberale benestante (non si può essere radical chic e stagisti precari contemporaneamente) che interpreta la propria futile emancipazione individuale come disprezzo per le masse popolari, rispetto alle quali sente la necessità fisiologica di differenziarsi. Una sorta di nemesi storica, quella del liberalismo, che dalla lotta ai privilegi della vecchia aristocrazia fondiaria è passato ad imitare la visione del mondo degli effemminati ed incestuosi cicisbei dell’Ancien Regime, con il disprezzo verso i propri servi della gleba che si esprimeva in un vestiario ridicolo ed appariscente atto esclusivamente a mostrarsi “altro da quelli”. L’odio per le masse popolari del radical chic, che di recente è arrivato a proporre una sorta di oligarchia elettorale per soli editorialisti di Repubblica, lettori di Umberto Eco ed erasmus in lettere moderne indirizzo giornalismo laureati con una tesi sulla poesia tribale Igorot. L’astiosa necessità di sentirsi parte di una sorta di “aristocrazia culturale” conduce il radical chic non solo a frequentare esclusivamente i suoi simili, ma ad impegnarsi attivamente in ogni genere di battaglia gli venga proposta, ad una sola condizione: che sia radicalmente inutile, finanche deleteria, per la stragrande maggioranza dei suoi connazionali. Possono ovviamente indignarsi per i poveri migranti che fuggono dalla guerra con lo smarthphone e se senza parenti a seguito, ma se un loro compagno invita una famiglia di italiani sfrattati ad affittare un garage non batteranno ciglio.
Certamente, bisogna anche ammettere che tutti noi, almeno qualche volta, abbiamo avuto tentazioni radical chic. È così rassicurante credersi colti solo perché si è letto il riassunto de “alla ricerca del tempo perduto”. È così bello schifare i connazionali che vanno a vedere i cinepanettoni. È così appagante essere sempre e comunque nel giusto, al punto da dover fare la lezioncina agli altri. A questo proposito, e per evitare tentazioni in tal senso, è meglio ricordarsi poche e semplici regolette che, se ripetute a mente nei momenti di crisi, potranno salvare il nostro equilibrio mentale e quindi impedirci di entrare anche noi nella infausta secta spinelliana, da cui poi uscire è ben più difficile:
1) Il cinema di Ciprì e Maresco non è coraggiosa denuncia sociale, e non ha nemmeno la dignità dissacrante della merda d’artista di manzoniana memoria. È semplice gusto coprofilo per la marcescenza sociale;
2) I Baustelle, quelli che in “La guerra è finita” attribuiscono a Bush la guerra alla Serbia, non sono dei cantautori della tradizione di un De André, ma degli sfigati che credono che la propria depressione possa essere argomento interessante per l’ascoltatore;
3) Saviano non è un coraggioso reporter minacciato dalla Camorra, ma un generatore automatico di banalità radical chic in servizio permanente ed effettivo, che se venisse effettivamente sostituito con un simile surrogato non desterebbe alcuno stupore;
4) Le camicie coreane non donano uno ieratico charme da saggio anticonformista. Sono quelle che per decenni hanno indossato i gelatai di tutto il mondo senza pretendere di lanciare alcuna moda e senza spendere 200 euro l’una;
5) I ristoranti stellati, il più delle volte, fanno cagare e non lo ammettiamo esclusivamente perché abbiamo speso troppo. Se poi il ristorante è gestito da un cuoco (non chef: cuoco) che conduce un qualche programma televisivo, allora possiamo avere la certezza che le lasagne che ci faceva nostra nonna sono decisamente ad un altro livello;
6) Conoscere il pensiero dei postmodernisti (dal pelato francese all’obeso tedesco fino al barone omosessuale italiano) non è cultura, ma penoso conformismo accademico. Gentile spacca molto di più e non rompeva i coglioni con le critical mass;
7) Già, le critical mass a ben vedere non sono uno strumento di lotta contro l’inquinamento, ma solo un modo per far saltare i nervi a chi, contrariamente al radical chic medio, ha bisogno di andare a lavorare in macchina per portare a casa la pagnotta.
8) Da ultimo, ma non ultimo, lo champagne non si abbina a qualunque cibo e non si beve in qualunque momento. È semplicemente un vinaccio adulterato con il metodo classico figlio del più grande colpo di marketing della storia. Perché rovinare le ostriche con un vino che sa di trementina? Meglio fare come sull’isola di Skye ed innaffiarle con un ottimo Talisker, a patto ovviamente di non aver venduto la propria virilità per un piatto di lenticchie biodinamiche.
Matteo Rovatti
2 comments
con tutto il rispetto, un articolo del tutto inutile, se non per fare i “rivoluzionari” di tastiera condividendolo sui propri profili facebook, risultando (presuntivamente) “fighi” per contrapposizione ad un dato stereotipo di distorta antropoloia. Per carità, purtroppo esistente; ma da qui a scriverci su n’articolo… boh…
Voi li volete chiamare “radical-chic”. Io preferisco dire “stronzi”.
Ultima cosa: non toccate Basaglia, che la sua lotta contro l’infamia della tortura nei manicomi meriterebbe encomio unanime.
Sono essenzialmente dei piccolo borghesi complessati-scontenti della loro vita, se non fosse che sono in tanti e che sono affamati di potere e comforts, non sarebbero un grosso problema.