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Da Presidente del Kenya a “criminale internazionale”

by Adriano Scianca
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Kenyatta-nowRoma, 13 ott – Il presidente keniano, Uhuru Kenyatta, non andrà all’Aja. Lo afferma il ministro degli Esteri etiope, Tedros Adhanom Gebryesus, secondo cui lo stesso, che dev’essere processato davanti alla Corte penale internazionale per crimini contro l’umanità, non si recherà all’Aja “fin quando la richiesta dell’Unione africana all’Onu di rinviare il procedimento non avrà avuto risposta”. Urhu Kenyatta, figlio del presidente dell’indipendenza del Kenya Jomo Kenyatta ed ex leader del partito Kanu (Kenya African National Union), è stato eletto il 4 marzo 2013 presidente del Kenya ottenendo il 50,03% dei voti, contro il 43,28% dell’ex premier Odinga.

Le elezioni travagliate di Kenyatta, la contestazione da parte di Odinga per brogli che gli avrebbero garantito i 4.100 voti in più necessari alla vittoria – superata poi con la conferma da parte della Corte suprema del Kenya della veridicità del risultato elettorale – si accompagnano a una ben più grave accusa da parte della Corte penale internazionale relativa alla commissione di crimini contro l’umanità. Di gross violations sarebbero accusati sia il presidente che l’attuale vice presidente William Ruto “in relazione alle violenze interetniche scoppiate dopo le elezioni di dicembre del 2007” scrive Internazionale.

Nel 2007 Raila Odinga – afferma Limes – “ha invitato i kenioti a non accettare il secondo mandato di Kibaki, chiamandoli a manifestare pacificamente a Nairobi il 3 gennaio”, anche allora Odinga – candidato alla presidenza – aveva contestato il risultato elettorale che faceva di Mwai Kibaki nuovamente il Presidente del Kenya.

L’accusa rivolta a Kenyatta e Ruto è quella di essere i mandanti degli scontri post elettorali e delle violenze perpetrate.

Nel marzo 2013 alcuni governi occidentali, già prima del momento elettorale e, successivamente, dell’esito della Corte suprema del Kenya, avevano espresso i loro dubbi e palesato un malcelato dissenso qualora il parere della Corte fosse stato a favore della liceità del momento di voto, confermando quindi la carica presidenziale di Kenyatta. Johnnie Carson, segretario Usa per gli affari africani aveva dichiarato: “Le scelte avranno delle conseguenze” in uno stile perfettamente occidentale di ingerenza negli affari interni di stati esteri, uno stile che assurge a comportamento abituale degli stessi organismi internazionali.

L’ingerenza stessa piuttosto che sortire l’effetto di un deterrente ha cementificato, in nome di istanze “anti-colonialiste” alleanze prima ritenute impossibili, come quella tra Keniatta di etnia Kikuyu e Ruto esponente della tribù Kalenjin, contro i quali i Kikuyu avevano combattuto nel 2007.

Lo stesso esito elettorale rappresenterebbe per il Kenya la possibilità di superare l’annosa problematica dello scontro etnico, in un processo di sviluppo progressivo.

L’avvio di un processo per crimini contro l’umanità determinerebbe di fatto l’impossibilità da parte di Kenyatta di ricoprire efficientemente la propria carica presidenziale, dovendo costantemente presenziare all’Aja. Per lo stesso motivo il cinque settembre il Parlamento del Kenya ha approvato una mozione per chiedere l’uscita del Paese dalla Corte penale internazionale.

La riunione convocata dall’Unione africana l’11 e il 12 ottobre ad Addis Abeba, per discutere dei rapporti tra gli stati che ne fanno parte e la stessa Corte penale, ha nuovamente dato un forte segnale in difesa della figura di Kenyatta, nonostante sia stato attualmente confermato che la mozione del parlamento keniota non avrà effetti su procedimenti precedenti la data di approvazione stessa.

La posizione dei governi occidentali, in particolare di quello americano e britannico, nei confronti di Urhu Kenyatta, deve fare i conti con un intricato contesto internazionale, il Kenya rappresenta infatti terreno di investimento per molte grandi potenze orientali, prime tra tutte la Cina e l’India. Parecchi colossi europei e americani hanno inoltre investito nel Paese. Non bisogna neppure dimenticare che ad oggi il Kenya e il presidente Kenyatta fungono da forza di contrasto nei confronti delle organizzazioni terroristiche di matrice islamica nel continente africano, l’attentato di Nairobi al centro commerciale Westgate, perpetrato da gruppo armato legato agli Shabaab somali è la dimostrazione della posizione di Kenyatta nei confronti del processo di frizione contro tali organizzazioni. L’esercito Keniota è infatti impegnato in Somalia con forze proprie per sradicare Al Shabaab, gruppo insurrezionalista islamico attivo in Somalia.

Per l’ennesima volta, in un contesto internazionale dove il potere giurisdizionale sovranazionale non garantisce quasi mai i veri oppressi del mondo se non in virtù delle alleanze del momento, si rischia di ledere un sistema statale con meccanismi effettivamente funzionanti. Secondo il rapporto congiunto ambasciate/consolati/enit 2013 del ministero degli Affari esteri: “Il Kenya rappresenta il centro finanziario e commerciale dell’Africa Orientale”. Sembra opportuno chiedersi quanto a questo punto un nuovo impulso di ingerenza negli affari interni del Kenya possa dipendere dalla necessità di garanzie internazionali nei confronti dei diritti umani o non sia piuttosto l’ennesimo capriccio occidentale di un neocolonialismo ammantato di spirito umanitario.

 Melania Fiori

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