Roma, 3 lug – “Uno accanto all’altro, i quarantasette reggimenti, bandiere spiegate, ufficiali in testa, muovevano avanti come per una parata di dimensioni inaudite. Mai il mondo aveva visto qualcosa del genere: mai, nemmeno ai tempi del gran Federico, ché questi non erano mercenari, addestrati ad una dura e crudele disciplina, ma cittadini liberi, spinti avanti solo dall’amore per il loro paese e dalla fede nella loro causa […] Gli uomini che marciavano avanti sapevano la difficoltà e la terribilità del compito. Sapevano che pochi di loro sarebbero rimasti, la sera, per gioire della vittoria o piangere sulla sconfitta; ma essi venivano avanti. L’indipendenza del Sud, l’esistenza autonoma della nuova nazione che veniva al mondo tra il sangue e le lacrime, posava sulla punta delle loro baionette; ed essi lo sapevano”. Gettysburg, 3 luglio 1863. Con queste parole, Raimondo Luraghi, lo scomparso cantore della guerra civile americana, ha descritto l’ultimo atto di un dramma durato tre giorni, quella che sarebbe passata alla storia e nella leggenda come un atto di eroismo inaudito: la carica di Pickett, dal nome del generale e comandante di divisione confederato, cui fu affidato il comando di oltre 10.000 uomini per tentare di spezzare il centro nordista, asserragliato sulla Cemetery Hill, la Cresta al Cimitero.
Mai nome fu più di cattivo auspicio: al termine del combattimento, oltre 6.000 sudisti giacevano morti, feriti o prigionieri. Fu, per molti aspetti, la tomba della Confederazione. La guerra sarebbe continuata per circa due anni ancora, con episodi di eroismo e coraggio indicibili da parte una parte e dall’altra. Ma l’inerzia del conflitto si era spostata a favore dell’Unione: il giorno dopo la Pickett’s charge, il 4 luglio, nel lontavo Ovest cadeva la piazzaforte di Vicksburg, con un enorme bottino di prigionieri e armi catturati dal futuro presidente americano Ulysses Simpson Grant. Del resto chi avesse osservato le due nazioni prima del sorgere del conflitto, non avrebbe avuto dubbi sull’esito della guerra. Il divario nel potenziale umano tra le due sezioni (gli arruolabili, cioè, in età compresa tra i 17 e 50 anni), restituiva una disparità di 4 a 1 a favore del Nord. Come in ogni guerra moderna – di cui il conflitto americano fu per molti versi il primo esempio, con l’impiego di terribili armi di distruzione di massa, dal fucile e cannone rigati, all’invenzione delle corazzate – il fattore materiale ed economico possedeva, poi, un peso determinante.
Ebbene, nel Nord altamente industrializzato, erano concentrati l’82% delle officine e impianti siderurgici e nel Settentrione l’intera produzione manufatturiera del Nuovo Continente raggiungeva l’84%. Il Sud in teoria possedeva un bene in quantità enorme, con cui qualcuno si era illuso di poter vincere la guerra, scambiandolo con armi e munizioni in Europa: il cotone. Poco, troppo poco. C’era poi un fattore che giocava a sfavore dell’Old South: prima dell’inizio della secessione, non esisteva nel Meridione una comunità che potesse dirsi nazione nel senso completo del termine. Sostenere che tra Nord e Sud con il tempo si fossero create due distinte realtà e due differenti civiltà, è ovvio: ma da qui ad affermare che il Meridione presentasse un modello nazionale omogeneo contrapposto a quello Settentrionale, ce ne corre. Indipendentemente, cioè, da ciò che esso divenne dopo l’inizio delle ostilità, il territorio sudista costituiva, secondo una definizione assai azzeccata, un Herrenvolk democratico: ossia l’essenza di un gruppo democratico unito dalla razza e dalla difesa del sistema schiavistico. Tutto ciò poteva spiegare la spinta secessionista, ma le profonde differenze all’interno di questo stesso ceto (nel senso sombartiano del termine), ne tradivano l’inadeguatezza a forgiare nell’immediato uno stato nazionale. Qui non si aveva a che fare, insomma, con un popolo formatosi e unitosi già da tempo, il quale, trovandosi poi sotto l’occupazione di una nazione straniera, rivendichi il proprio diritto all’indipendenza. Anche assumendo che le tre principali nozioni (semmai ne esistano di più significative tra le tante proposte) che concorrono a formare il concetto di “nazione” – ossia la comunità d’intenti, il clima e l’identità tra istituzioni – siano utilizzabili per tentare di definire il nazionalismo sudista, esistevano tanti “Sud”: gli stati del profondo Sud differivano da quelli della fascia intermedia e dell’alto Sud. Alcune regioni del Mississippi, della Florida, della Georgia e dell’Alabama per formazione morfologica e clima, non avevano sviluppato un’economia di tipo schiavistico simile a quella degli stati sudisti più settentrionali. A sua volta, ciascuno stato conteneva al suo interno un microcosmo assai più eterogeneo di quanto si possa credere: l’Alabama, la Virginia, la Georgia, il North Carolina, ad esempio possedevano zone tra loro del tutto diverse per spirito, cultura, idee, tradizioni, economia e aspetti climatici. Ancor più evidenti le differenze tra Est e Ovest del Mezzogiorno. Se a ciò si aggiunge la forte tradizione localistica e autonomista propria dello spirito sudista, il quadro appare molto più complesso e frastagliato di quel che appaia di primo acchito.
Eppure grazie allo straordinario ingegno e abilità del suo leggendario condottiero, Robert Edward Lee, e al coraggio dei figli del Sud riuniti nell’Armata della Virginia Settentrionale – uno degli eserciti ancor oggi più amati e ammirati di ogni tempo – quante volte la Confederazione andò vicino a piegare la volontà di combattere del Nord! Vennero così le straordinarie vittorie di Gaine’s Mill, della seconda battaglia di Manassas, di Fredericksburg e del capolavoro di Lee: Chancellorsville, proprio grazie al quale Old Marse, come veniva definito affettuosamente dai suoi soldati, avrebbe invaso il Nord, nella Pennsylvania, dirigendosi verso il destino fatale di Gettysburg. Anzi, si può che se una nazione si forgiò e alla fine sorse integra pur se sconfitta tra le macerie di Richmond e Atlanta, fu proprio grazie a Lee e ai suoi uomini, che furono identificati come il simbolo stesso del Sud e intorno a cui si strinsero in migliaia: semplici massaie che mandavano biglietti di ringraziamento così come la classe polirtica e l’opinione pubblica colta. Se infatti l’Unione grazie al suo potenziale umano e industriale non poteva essere piegata manu militari, essa poteva essere costretta da una serie ripetuta di sconfitte e dall’altissimo numero delle perdite subite a trovare una pace che garantisse la vittoria e l’indipendenza della causa sudista. In effetti, per quanto oggidì si batta la grancassa del conflitto sorto in difesa dei diritti della razza afro-americana e dell’abolizione della schiavitù, come è in realtà ampiamente noto tra gli studiosi della materia, l’opinione pubblica settentrionale si mostrò sempre piuttosto tiepida nei confronti degli ideali abolizionisti. Se la schiavitù fu il casus belli che fece deflagrare un conflitto strisciante da anni, il presidente unionista Lincoln nel suo discorso d’insediamento fu chiaro circa gli scopi della sua politica: “Non ho intenzione di interferire con la questione della schiavitù, laddove essa già’ esista, non ho né il volere, né il potere di farlo”. All’opposto la sua nemesi confederata, Jefferson Davis era spiegava bene ciò che il Sud desiderasse: noi non perseguiamo alcuna conquista, nessun ingrandimento, nessuna concessione di alcuna specie dagli Stati con i quali eravamo remotamente confederati. Tutto ciò che chiediamo è di essere lasciati soli”.
Oggi, di quel mondo sembra essere rimasto ben poco. Una generazione intera fu spazzata via dalla guerra. Le perdite furono spaventose, assommando a quasi il 40% della popolazione maschile attiva. E con essi sparirono molti di quegli ideali: la concezione di un mondo fatto di differenze, del lavoro come mezzo per vivere e non come scopo della vita, di una società anacronistica in cui il principale sistema di produzione, quello schiavistico, come ha indicato lo storico Eugene Genovese, rappresentava quanto di meno produttivo e quanto più anti-economico la tecnologia moderna potesse offrire. Una scelta precisa, consapevole, netta: vivere indipendenti in un mondo in cui il tempo sembrava essersi fermato a molti decenni prima. Una civiltà unica nel panorama della modernità. Restano ancora, resistendo disperatamente, mentre la canea urlante ne domanda la demolizione in nome del politically correct, alcuni monumenti che rappresentano i simboli di quel sogno d’indipendenza. Le statue in bronzo o in granito di Lee o del suo fidato luogotenente Thomas Jonathan “Stonewall” (muro di pietra) Jackson; dell’abile Nathan Bedford Forrest che ha ispirato il nome di un famoso personaggio di un fortunato film; del comandante della cavalleria Jeb Stuart, beau ideal del cavaliere indomito e senza paura. Resistono.
Non è sempre stato così. Subito dopo la fine della guerra civile si moltiplicarono le associazioni di veterani sudisti per continuare a testimoniare che loro erano stati vinti sì, ma non del tutto sconfitti. E che avevano combattuto sino a quando la fame, le malattie, la mancanza di armi, munizioni e rimpiazzi mentre il numero dei nemici cresceva, non li aveva piegati. Solo quello , non il valore degli unionisti. E’ la letteratura della “causa persa” perché sopraffatta dall’aritmetica e dalla bruta forza della materia, della quantità. Fu un movimento che attrasse intellettuali, scrittori e storici. Nel 1934 il giornalista e storico Douglas Southall Freeman fu insignito persino del premio Pulitzer per la sua splendida biografia di Lee. Ma è negli anni 60’ , nel centenario che si è assistito a un vero e proprio revival di interesse per la Confederazione e suoi ideali.
Non sarà neppure sempre così. L’interesse degli storici e appassionati in America per la guerra civile e le gesta sudiste, nonostante la battaglia in nome del nulla rappresentato dai movimenti pacifisti, anti-razzisti e via dicendo continui a occupare le prime pagine chiedendo che questo o quel simbolo della Confederazione vengano rimossi perché offensivi o non rispettosi dei propri ideali, rimane immutata. Mentre è in uscita la mille e centesima monografia su Gettysburg (la battaglia più studiata di tutti i tempi) e Amazon o Barnes & Noble ricevono valanghe di ordini, bambini e adulti continuano a sognare di trovarsi sui campi di grano di Antietam con la divisa grigia indosso. E magari la domenica partecipano ai reenactements locali, a migliaia. Tutti loro continuano a guardare, con gli occhi che brillano, Rhett mentre dopo la caduta di Atlanta dichiara a Rossella che si andrà ad arruolare tra le fila confederate perché a lui piacciono le cause perse, ma quando sono proprio perse.
Stefano Bianchi
La causa persa dei sudisti americani: tra epiche battaglie e gesta eroiche
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3 comments
Complimenti per lo spunto.
Articolo prezioso. Grazie. Al riguardo mi permetto di consigliare la lettura de “Il bianco sole dei vinti” di Venner.
[…] di Nazione. Le pagine più belle su Robert Edward Lee le ha scritte Dominique Venner nel volume Il bianco sole dei vinti (Settimo […]