Roma, 13 mag – Le precarie condizioni lavorative dei dipendenti di Foodora hanno commosso anche il bocconiano Tito Boeri. Il presidente dell’Inps durante un dibattito al Salone del Libro di Torino ha lanciato la sua proposta: “Anche noi dovremmo dotarci di una piattaforma per seguire i pagamenti dei riders, spingendo le società a pagare una quota al sistema pensionistico”.
Qui però sorge una domanda: perché creare una piattaforma quando basterebbe un normale contratto di lavoro? La spiegazione che dà Boeri lascia perplessi: “Quello della Gig Economy – spiega l’economista – dei cosiddetti lavoretti è un fenomeno complesso: da una parte crea opportunità di lavoro per chi ha esigenze temporanee di reddito e necessita di elevata flessibilità. Dall’altra parte però nasce come lavoro autonomo ma ha caratteristiche tipiche di lavoro subordinato: spesso il committente è unico, e le modalità non sono tali da coniugare flessibilità con tutele dei lavoratori”. In pratica Foodora può continuare a trattare i dipendenti come meglio crede, l’importante è che paghi i contributi per chi quella pensione forse non la vedrà mai. L’errore di fondo di questo ragionamento è molto semplice: i rider (ossia chi consegna il cibo a domicilio) sono considerati alla stregua dei fattorini di una rosticceria. Le cose, però, non stanno affatto così. Vediamo perché.
Foodora è un’impresa tedesca con sede a Berlino di consegne pasti a domicilio per più di novemila ristoranti in dieci paesi. Usando l’applicazione per dispositivi mobili o il sito internet della società, i clienti trovano i ristoranti vicino a loro che consegnano al loro indirizzo, fanno un ordine che viene tracciato e attendono che l’ordine venga recapitato con un corriere in bicicletta. Si tratta dunque di un’azienda di servizi con un’organizzazione aziendale tanto flessibile quanto organizzata. Per realizzare i suoi utili si serve di tanti lavoratori che per pochi euro macinano chilometri per consegnare qualche esotica prelibatezza. Per capire meglio il tipo di rapporto che intercorre tra le parti è bene far riferimento ad una recente sentenza del Tribunale di Torino. Riassumiamo in breve la vicenda. Alcuni fattorini protestano rifiutandosi di svolgere la loro mansione. L’azienda decide così di licenziarli, o meglio di sloggarli ossia di cancellarli dall’elenco dei propri collaboratori. I malcapitati si rivolgono al giudice che, però, respinge il loro ricorso. Nelle motivazioni della sentenza il giudice Marco Buzano spiega che: “I fattorini di Foodora non avevano l’obbligo di effettuare la prestazione lavorativa e non erano sottoposti al potere direttivo e organizzativo del datore di lavoro”. Per il giudice non c’è nessun vincolo di subordinazione perché “il rapporto di lavoro intercorso tra le parti era caratterizzato dal fatto che i ricorrenti non avevano l’obbligo di effettuare la prestazione lavorativa e il datore di lavoro non aveva l’obbligo di riceverla”. Buzano non manca di sottolineare alcune criticità dovute al Jobs Act: “Forse nelle intenzioni del legislatore avrebbe dovuto ampliare in qualche modo l’ambito della subordinazione, includendovi delle fattispecie fino ad allora rientranti nel generico campo della collaborazione continuativa. Ma così non è stato”. Questa vicenda ci dimostra che non possiamo ottenere giustizia da chi si limita ad applicare la legge vigente. Spetta alla politica condannare il ricatto a cui sono sottoposti i rider per far rispettare un principio molto semplice: se un’azienda vuole disporre in maniera continuativa dei propri collaboratori ha l’obbligo di assumerli a tempo indeterminato.
Salvatore Recupero
Foodora: la “mancia” di Boeri per i lavoratori della sharing economy
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1 commento
si vabbè lavoro… hipster che consegnano pizze a cerebrolesi che, tanto indaffarati dai loro smartphone, manco si alzan dal divano… se i problemi di lavoro son questi ci meritiamo di far la fine della grecia…