Roma, 3 mar – C’è un aspetto poco affrontato nel dibattito politico e sociale italiano relativo a migranti e stranieri – siano questi poi residenti o clandestini – ed è la natura del luogo di provenienza di molti di questi e della maniera in cui l’immaginario collettivo raffigura tali geografie. Nel fare un gran clamore su migranti, religione, diritti, scontri, lotte, disagi si dimentica spesso come le fondamenta di natura geografica siano date come qualcosa di dato.
Dietro i barconi vi è solo la guerra o vi è il deserto, o forse entrambi. Il deserto in particolare è un elemento particolarmente interessante e soprattutto ricorrente di molte nostre rappresentazioni culturali relative agli immigrati. I migranti che attraversano deserto e dune per giungere alla terra promessa, i migranti che scappano continuamente, come se non potessero o volessero restare, motivazioni non realmente indagate dall’opinione pubblica, perché tali notizie forse muovono spesso più lo stomaco del cervello.
Insomma, se chiedeste ad un passante che tipo di conformazione geografica c’è nel corno d’Africa, o nel Madhya Pradesh indiano o in Iran, vi direbbe sicuramente che lì c’è il deserto.
Innanzitutto, cos’è un deserto? E dove si trova? Deserto è definito come una vasta regione caratterizzata da scarsissime precipitazioni, vegetazione effimera e vita animale ridotta; ma oltre al deserto fisico vi è ovviamente anche un deserto figurativo, il deserto è anche un luogo spopolato, abbandonato, dove non vi sono le condizione per svolgere attività umane.
Chiarito ciò, possiamo renderci conto che la collocazione spazio-temporale del deserto diventa molto più problematica di quella che possiamo generalmente immaginare: geograficamente l’Antartide diventa deserto senza sabbia, il Meridione diventa un deserto lavorativo (ma dalla forte concentrazione demografica), i talk show un deserto per la cultura e Jesolo diviene una città fantasma se ci vai a fine Aprile o il Sahara tutt’altro che un luogo deserto al fine di meditare e sentirsi soli.
È ovvio a questo punto come dovremmo parlare non solo di deserti piuttosto che deserto, ma tali deserti si costituiscono a seconda dell’interpretazione e del campo che intendiamo porre, al punto che i deserti sembrano essere in nessun luogo e al tempo stesso in tutti i luoghi. Il deserto sotto questa ottica può esser definito come non-luogo, ossia un posto dove non sembrano esistere relazioni tra chi lo transita, ma solo da parte di chi lo osserva (o meglio lo immagina) per differenziarsene definirsi luogo allora. Personalmente lo considererei un non luogo in quanto questo sembra sfuggire alle definizioni.
Al tempo stesso, com’è possibile considerare un deserto il luogo in cui è nato e prosperato l’imperto più ricco al mondo, l’Impero del Mali di Mansa Musa e l’impero Zulu di Shaka? Certo si può controbattere che l’occidente abbia distrutto questi, e che il “deserto” sia arrivato in seguito. Eppure è nel riconoscimento dell’altro che lo riconosciamo come persona, ma quanti sembrano convenire sull’importanza storica dell’Africa oggigiorno trai suoi propugnatori più forti all’interno del nostro panorama politico che la legittima sulla base del deserto, piuttosto che sulle sue ricchezze e sulla sua cultura o storia? Dall’altro lato dello spettro politico c’è il razzismo spesso ed è un elemento che possiamo ritenere quasi normale, perché è manifesto è prevedibile, ne sappiamo le conseguenze e sono tangibili. Mentre quelle di un razzismo mascherato, che si finge progressista mentre omologa è molto ma molto più pericoloso.
Siamo solo all’inizio dei problemi che il deserto solleva. Perché è vero, l’aridificazione causata dal cambiamento climatico crea severe ripercussioni sull’habitat umano e ne riduce l’abitabilità e le possibilità di coloro che si trovano a ridosso di queste aree. Dall’altro lato il deserto diviene anche una giustificazione o una sorta di marchio che rende sia luoghi che nonluoghi terre vuote, terre nulle, e siccome dove non c’è nulla solo nulla può sopravvivere, viene spesso usata come scusa per chi sostiene le migrazioni da tali luoghi
Quanti però degli attuali stranieri residenti in Italia provengono da deserti geografici effettivamente? Diamo uno sguardo alle tabelle per stranieri residenti e richiedenti asilo tratte dall’Istat e dal ministero degli Interni.
Come è possibile notare dalle tabelle, il topos del deserto come luogo d’origine dei migranti che giungono in Italia sembra esistere soltanto in minima parte a livello geografico (ma soprattutto per i residenti più che per i rifugiati o migranti), considerando inoltre che solo una minima parte di stranieri provenienti da altri paesi in cui vi sono effettivamente deserti (Nigeria, India, Cina, Pakistan, Senegal) abbia in qualche modo a che fare con dune, sabbia o roccia.
Il vero problema dietro al deserto e all’equazione Terzo Mondo uguale povertà sta nel modo in cui nella retorica dominante che lascia parlare i giornalisti bianchi, i politici bianchi, o al massimo una piccola élite di stranieri molto vicini a questi, si creino e si diffondano geografie immaginarie, o orientalismi (anche se in questo caso dovremmo parlare di africanismi) che finiscono per mistificare la realtà e disumanizzare gli stranieri. Nell’apologia dello straniero paradossalmente sembra trovarsi il suo più acerrimo nemico, che fornisce un’immagine falsa di questo e che non gli da diritto di replica, perché potrebbe forse rivelarsi ben diversa.
Nelle immagini, nella conoscenza dei migranti un altro deserto ce lo ritroviamo quando cerchiamo i racconti di questi persone, nel cercare di capire le loro idee di tutti i giorni, la concezione del diritto, concetto di cittadinanza, tolleranza ecc… insomma nel tentativo di globalizzare, quanto si sta soltanto fingendo di aprirci e conoscere?
Alla stessa maniera, vi è spesso in questo cocktail di globalizzazione anche una componente tendenza all’uniformità, ed è spesso facile vedere anche un’altra cosa: l’elevazione dello straniero a baluardo dei valori più progressisti e spesso ad avanguardia del futuro. Ma quanta verità c’è dietro tutto ciò? Innanzitutto, dietro ogni persona vi è una visione particolare ed unica inerente al concetto di valori che non sono per l’appunto universali. In parole povere, non esistono società migliori di altre, ma solo società diverse, a cui se il nostro metro di paragone viene applicato crea un falso preconcetto che gerarchizza il mondo: se dovessimo ad esempio parlare di diritti LGBT e basarci sulla maggioranza delle disposizioni legislative a livello mondiale a questo punto l’Occidente verrebbe rappresentato come la minoranza in un mondo ancora repressivo.
Alla stessa maniera se dovessimo considerare lo Ius soli come “misura di civiltà” ci troveremmo implicitamente a indicare la stragrande maggioranza del mondo come barbaro e paradossalmente a doverlo ripudiare in quanto ammetteremmo come il resto del mondo sia fatto da tali elementi che per l’appunto non potrebbe coesistere con alcuno dei diritti della cittadinanza tali da concederla questa a cittadini esterni; per ciò che concerne le libertà e le concezioni relative ai diritti, tale descrizione può andare avanti a lungo sul piano sia ontologico che politologico che antropologico. Società diverse finiscono per produrre standard diversi, e se si vuole un mondo di diversità allora non si può propugnare l’omogeneizzazione.
È un ambito pieni di discorsi doppi, di retorica, soprattutto quella da campagna elettorale, che dimostra come il deserto molto spesso lo abbiamo in casa di fronte alle mancanze di risorse e prospettive di noialtri, oltre che alla nostra incapacità di rinnovarci. Ed è anche per questo che abbiamo bisogno di parlare di deserto, per opporci come antitesi ad esso.
Giuseppe Mastroianni
Immigrazione e deserto: breve geografia culturale immaginaria
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