Roma, 9 dicembre – Mario Sironi è stato definito il “Michelangelo del Novecento”. Questo non solo per la monumentalità delle sue opere e per l’uso di colori squillanti ma anche perché, come il Buonarroti con la Sistina, ha visto censurare una delle sue creazioni più importanti. Si tratta de “L’Italia fra le Arti e le Scienze”, un affresco realizzato nell’aula magna della Sapienza di Roma nel 1935. In questo caso, invece che le ‘vergogne’ coperte con mutande come fu per Michelangelo, l’intervento correttivo riguardò i simboli, troppo fascisti. L’affresco realizzato all’inizio della guerra d’Africa presentava infatti riferimenti precisi a vittorie alate, cavalieri duceschi, aquile, fasci, elmetti, saluti romani e compariva anche la data secondo il calendario fascista. Sironi del resto è stato uno dei teoreti della pittura sociale, a servizio della comunità e della politica. Un artista militante che non ha mai rinnegato la sua fede fascista e che per questo, scampato in extremis alla fucilazione partigiana, ha pagato con l’oblio le sue scelte, non riconoscendosi del resto nel nuovo regime.
Caduto il Fascismo la scure censoria doveva quindi porre rimedio all’imbarazzo apologetico dell’affresco, che venne subito coperto con della carta. Poi due apposite commissioni vennero incaricate di decidere se distruggere l’opera o solo evirarla. Fu la scelta tridentina a prevalere, grazie all’intervento di Marcello Piacentini che – pare strano – era membro di entrambe le commissioni. L’intervento correttore del 1950 non colpì però solo gli elementi più politicamente scabrosi, ma si spinse sino a modificare i profili dei volti e i toni dei colori usati. Uno stravolgimento che Sironi non accettò mai e si rifiutò perciò di rivedere la sua opera, considerandola come una figlia ormai morta.
Nonostante le pesanti manomissioni però lo spirito sironiano è sopravvissuto sotto il primo strato, come rilevato da alcuni esami svolti sul dipinto. Così è stato possibile, a ottant’anni dalla sua nascita, sottoporre l’affresco a un prezioso restauro terminato quest’anno, e che ha restituito giustizia e verità all’opera e all’arte italiana. “Una scelta critica meditata a lungo, che appare a questo punto doverosa – ha detto una delle responsabili del recupero, Marina Righetti, direttore del dipartimento di Storia dell’arte e Spettacolo della Sapienza – perché il dipinto costituisce un documento figurativo di straordinaria importanza rispetto alla produzione di Sironi, alla storia della Città Universitaria e, in generale, all’arte figurativa italiana tra le due guerre”.
Un segnale confortante e in controtendenza rispetto alle vulgate ‘depotenziatrici’ degli ultimi anni, che hanno trovato tragici esempi nell’intervento sul Monumento alla Vittoria di Bolzano o nelle richieste grottesche di Fiano e Boldrini o ancora nella campagna iconoclasta del The New Yorker. Sironi, che dipingeva opere didattiche, attraverso la sua opera restaurata ci insegna ancora qualcosa. Sul passato monumentale si regge il (poco) peso dell’Italia intesa come Nazione; l’opera di rimozione portata avanti negli anni infatti ha solo distrutto, senza ricreare. Un’argomentazione basata sulla pars destruens senza contemplare la pars construens non consente di procedere, ma solo di regredire. L’Italia di oggi non riesce a produrre più simboli destinati a durare, epopee collettive in cui potersi riconoscere. Sironi dal passato ci parla di futuro e di vittoria, mentre i capitani di sventura che guidano il paese profetizzano un eterno presente di sconfitta e sterilità. A ciascuno il suo.
Simone Pellico
1 commento
….occorre stare,ora, attenti…fiano/boldrini & Comp potrebbero tentare di sostituire i personaggi del dipinto con zingari, clandestini e comunisti….