Roma, 15 nov – Sull’equivoco rapporto intercorrente fra l’Isis e l’Occidente si è scritto già di tutto. Se è difficile provare in modo inequivocabile che si tratti di una creatura “made in USA”, è altrettanto difficile negare che abbia goduto di strani appoggi da parte dei turchi (per due anni, prima dell’operazione Scudo dell’Eufrate, Turchia e Stato Islamico hanno confinato per centinaia di chilometri, senza che si siano verificati incidenti degni di nota), delle monarchie del Golfo (Emirati Arabi, Qatar e Arabia Saudita), e di Israele, che tutt’ora confina, nella zona del Golan, con una piccola provincia controllata dall’Isis senza che le due parti si siano mai scambiate nemmeno una sassata. Tutti paesi che a diverso titolo rientrano fra gli alleati dell’America. Ancora più eclatante l’azione militare statunitense di un anno fa, quando i cacciabombardieri a stelle e strisce, bombardando “per errore” le truppe siriane, hanno rischiato di far collassare le difese attorno alla città di Deir Ezzor, regalandola all’Isis.
E nei giorni dell’avanzata delle forze di Damasco nell’est del Paese, fra settembre e ottobre, diverse fonti russe hanno segnalato strani movimenti di elicotteri (e l’Isis non dispone di elicotteri) che avrebbero prelevato uomini dello Stato Islamico poco prima dello sfondamento delle loro linee ad opera dei governativi. Gli indizi ci sono, il movente è semplicissimo: chiunque possa nuocere all’Iran è il benvenuto. Logicamente, è difficile che Washington ammetta di aver supportato un gruppo terroristico che si è macchiato di azioni raccapriccianti in Siria, in Iraq, ma anche in Europa e negli stessi Stati Uniti. Quello che però emerge da una dettagliata inchiesta della britannica BBC getta un’ombra lunga e nerissima sulle verità “ufficiali” che i media occidentali hanno raccontato per anni.
Dobbiamo tornare a poco più di un mese fa. La Forza Tigre, unità d’élite dell’Esercito Siriano, dopo aver liberato dall’assedio i commilitoni intrappolati da anni a Deir Ezzor, sta ripulendo la zona dalle milizie dell’Isis e si prepara a marciare verso il confine iracheno e i campi petroliferi dell’est siriano. Le Syrian Democratic Forces (SDF), un esercito formato da Curdi (nettamente maggioritari), Arabi e Turcomanni, supportato e diretto dalla Coalizione anglo-americana, sono bloccate da mesi nella zona di Raqqa, incapaci di aver ragione delle ultime difese dello Stato Islamico, che vende cara la pelle nella propria capitale. Improvvisamente, imponenti reparti delle SDF, sganciatisi dal fronte di Raqqa, iniziano un’avanzata a est dell’Eufrate, sbarrando di fatto sbarra la strada ai governativi nella loro corsa verso il confine siro-iracheno.
E in questa corsa parallela sulle due sponde del fiume che taglia quella parte del Paese, l’Isis sembra opporre molta più resistenza alle forze di Assad piuttosto che alle SDF. Sono i giorni in cui un attacco dell’artiglieria jihadista – insolitamente precisissimo – centra il quartier generale dei Russi a Deir Ezzor, uccidendo alcuni ufficiali. Evidentemente ai padrini delle SDF questo non basta, lo slancio dell’armata siriana deve essere fermato. Per raggiungere lo scopo, va risolta la questione di Raqqa, in modo da spostare il grosso delle forze a sudest, ma i Curdi non ne hanno la forza, nonostante i bombardamenti a tappeto dell’aviazione americana. Si sceglie quindi la via del compromesso. Pochissimi mesi prima, il Segretario alla Difesa, James Mattis, con piglio alla John Wayne, aveva definito la guerra all’Isis una guerra di annientamento, per non permettere ai jihadisti di scappare in qualche altro paese per continuare la loro attività terroristica.
Questa ed altre roboanti dichiarazioni si dissolvono però in poche ore, fra il 10 e il 12 ottobre, quando le SDF negoziano, su ovvie pressioni anglo-americane, la fuoriuscita da Raqqa di tutti i miliziani dello Stato Islamico ancora presenti in città. E non per metterli in un campo di detenzione, magari per capire chi di loro sia responsabile di azioni orribili quali – ad esempio – trasformare delle ragazzine in schiave sessuali. No, semplicemente viene loro garantito un passaggio sicuro verso est, nel territorio che l’Isis ancora controlla oltre l’Eufrate, con un convoglio scortato dagli aerei della coalizione, e aperto da due veicoli corazzati i cui occupanti, la BBC non lo dice ma lo lascia supporre, indossano divise americane. E non è un convoglio da poco: i testimoni lo definiscono lungo dai sei ai sette chilometri, e capace di trasportare circa 4.000 persone, ossia centinaia di miliziani e le loro famiglie. Secondo l’accordo, i terroristi avrebbero dovuto portare con sé solo armi leggere, ma in realtà su quelle decine di camion viene caricato ogni genere di armamento, e relative munizioni.
E sempre secondo l’accordo iniziale – o quando meno secondo la versione dell’accordo raccontata a denti stretti dal portavoce della coalizione occidentale – i cosiddetti foreign fighters, i combattenti non siriani, avrebbero dovuti essere esclusi dal convoglio. Così non è stato, visto che le testimonianze raccolte dall’inchiesta parlano di Francesi, Turchi, Tunisini, Egiziani, Azeri, e via dicendo. In questo modo, un duplice obiettivo viene raggiunto: liberare dal fronte di Raqqa migliaia di soldati delle SDF da impiegare nel settore sudorientale, e rimpolpare le schiere dello Stato Islamico in quello stesso quadrante, per dare filo da torcere all’esercito siriano. Tuttavia, molti di questi terroristi, consapevoli di aver perso la guerra, hanno cercato di fuggire in altri Paesi, disperdendosi in tutte le direzioni. C’è purtroppo da scommetterci: qualcuno di questi arriverà in Europa e, prima o poi, guiderà un camion sulla folla che visita un mercatino, sparerà sugli spettatori di un concerto, o metterà una bomba in un bar. In quel giorno di dolore, invece di perdersi in disquisizioni sociologiche, potremo chiedere il conto a chi, con l’immondo accordo di Raqqa, si è reso complice dei terroristi.
Mattia Pase
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