Istanbul, 7 nov – Un piccolo cartoncino marrone con una scritta gialla, in turco. Il tutto nascosto nelle tasche di giacche, camicie e pantaloni o messo proprio di fianco alle etichette dei vestiti in vendita nei negozi di Istanbul del colosso spagnolo Zara: “Ho fatto io questo capo d’abbigliamento che stai comprando, ma non sono stato pagato per farlo“, si legge. È così che i dipendenti di un’azienda tessile dell’indotto della multinazionale iberica denunciano le condizioni di lavoro alle quali sono sottoposti.
L’azienda in questione è la Bravo Tekstil, che per Zara produceva in appalto numerosi capi d’abbigliamento. Nel giro di una notte, un anno fa, la società ha deciso di chiudere, lasciando i lavoratori senza gli ultimi tre mesi di stipendio e numerose altre indennità che non sono mai state corrisposte.
“Inditex (Industrias de Diseño Textil Sociedad Anónima, la capogruppo che oltre a Zara controlla anche altri marchi, ndr) ha soddisfatto tutti i suoi obblighi contrattuali verso la Bravo Textil e sta lavorando al momento con la IndustriALL affiliate, Mango e Next per creare un fondo pensato per i lavoratori danneggiati dalla Bravo. Questo fondo coprirà gli stipendi, le indennità, le ferie e altri pagamenti di cui i dipendenti non hanno usufruito”, spiega la società in una nota.
Non è la prima volta che Zara finisce nell’occhio del ciclone. Pochi mesi fa un acquirente aveva trovato un topo cucito all’interno di un abito acquistato negli Usa: il caso era finito davanti alla Corte Suprema e aveva sollevato sospetti sulle condizioni igieniche delle fabbriche alle quali è stato esternalizzato il lavoro. Molte di queste si trovano proprio in Turchia. Una nazione in cui le denunce di sfruttamento sono all’ordine del giorno: dal lavoro minorile ai danni ambientali, passando per gli abusi a danno dei profughi siriani, costretti in assenza di alternative ad accettare condizioni vicine allo schiavismo.
Filippo Burla