Roma, 17 ott – “Il campo di prigionia era un posto orribile (…). Una serie di edifici grigi e tetri, resi ancora più sinistri dal filo spinato di cui erano stati circondati (…). C’erano duemila internati di guerra e solo diciotto rubinetti d’acqua fredda, e neppure un gabinetto, solo secchi di zinco, fuori, all’aperto”. Roba nazista? Errore. Qui siamo nella democratica, civilissima Inghilterra nel luglio del 1940. Il campo si trovava in un distretto a nord di Manchester. Gli internati erano immigrati italiani da decenni nel Regno Unito e che qui avevano fatto fortuna e amicizie. Ma quegli italiani ora erano in guerra con “la perfida Albione”. Dunque erano diventati nemici. Tutti sospettati, tutti possibili “quinte colonne” di Mussolini e di Hitler. “Bastardi italiani”. Anche gli antifascisti, anche gli ebrei. Parole di disprezzo, minacce, urla, vetrine dei negozi spaccate. Interrogatori ai posti di polizia, giovani e vecchi fermati, arrestati, internati. Senza che se ne sapesse più nulla.
Il dramma che Caterina Soffici racconta nel suo romanzo Nessuno può fermarmi, (Feltrinelli, pp. 254, euro16) è prima di tutto questo: la storia di una comunità di persone perbene, laboriose, cordiali, proiettate verso il futuro – Little Italy a Londra- che viene risucchiata all’improvviso in un vortice di odio e di furore. Nella storia più “grande” si ritaglia la storia più “piccola” dei protagonisti: Dante e Margherita, Michele e l’”inglesina” Florence, Bartolomeo e Lina. L’anteguerra è per tutti colorita, operosa quotidianità: il lavoro, le amicizie, gli affetti, le feste in famiglia, i giovani che scoprono l’amore, i più anziani che ricordano l’Italia e che, in qualche modo, l’hanno ricostruita tra quei “british” che li hanno accolti volentieri.
Di politica se ne fa poca. Comunque- anche i fascisti più tiepidi debbono riconoscerlo- da quando è arrivato il Duce, gli italiani sono ancor più rispettati. Fino alla tragedia. Quella del conflitto mondiale. E quella dell'”Arandora Star”, già elegantissima nave da crociera, che viene requisita per esigenze belliche dal governo. E stipata di italiani e tedeschi, colpevoli solo di essere italiani e tedeschi. Bestie appiccicate l’un sull’altra in un fetida promiscuità. Destinazione Canada. Un carico umano sacrificato alla disumanità della guerra. Churchill aveva promesso “lacrime e sangue” per gli inglesi e lacrime e sangue dovevano valere per tutti. Diritti civili? Convenzione di Ginevra? Democrazia, umanità, civiltà? Figuriamoci. Ed ecco, allora, il destino dell’”Arandora Star”, rievocato da Caterina Soffici, che con il suo romanzo ha partecipato anche al Premio Acqui Storia di quest’anno.
Va detto che la Soffici, nipote di Ardengo, politicamente è ben distante dal nonno “fascio”. E il romanzo non manca di evidenziarlo. I fascisti italiani che vivono a Londra tra le due guerre, per come ce li dipinge, non grondano simpatia. E l’Italia del Duce, alleata della Germania nazionalsocialista e imbarcata in una guerra contro l’Impero britannico, per lei non ha scusanti. Insomma, Caterina non “stramaledice” gli inglesi. Ma racconta una storia in cui i sudditi di Sua Maestà ci fanno la figura dei cattivi. Così democratici ma così cattivi.
Ma torniamo all’Arandora Star. Tinta di grigio, non attrezzata, con poche lance di salvataggio, priva di procedure d’emergenza, senza il contrassegno della Croce Rossa e forse proprio per questo motivo scambiata per un mercantile provvisto di armi in dotazione della Marina britannica, la nave fu silurata dai tedeschi il 2 luglio del 1940. Annegarono più di quattrocento civili, innocenti ma schiacciati dal sospetto e dalla xenofobia, e quindi condannati. La Soffici racconta tutto. Il dolore e l’orrore. E la memoria. A ritesserne i fili un ragazzo d’oggi, intelligente, inquieto e sensibile che vuol sapere la verità sul nonno “disperso, presunto annegato”, e una vecchia signora inglese, vivace e un po’ matta, che viveva a Little Italy e non ha dimenticato i giorni felici. Né quelli tragici. Perché nessuno può- né deve- dimenticare. Nulla.
Mario Bernardi Guardi