Roma, 29 ago – Sarebbe davvero ingenuo aspirare a una storia totalmente oggettiva, libera da qualsivoglia giudizio di valore. L’obiettivo della pura imparzialità è, molto semplicemente, irraggiungibile. Ma è indubbio, come notava anni fa Massimiliano Griner, “che chi desidera capire cosa sia realmente accaduto ha qualche risorsa in più rispetto a chi rimane impastoiato in ricostruzioni viziate dal pregiudizio ideologico”. L’ideologia è quindi una nemica della genuina ricerca storica. Ancor di più lo è la morale. Quando la storia viene ridotta a un immenso tribunale dove si pronunciano sentenze di condanna o di assoluzione, la prima vittima di siffatta moralizzazione della storia è appunto la conoscenza storica. Quando non si è interessati a capire, a conoscere, ma solo a condannare o ad assolvere, ci si preclude ogni autentica conoscenza storica e si finisce con lo scambiare lo storico per un giudice o un moralista.
E non solo, perché un tale atteggiamento, necessariamente manicheo (di qui i ‘buoni’, di là i ‘cattivi’), porta con sé due conseguenze a dir poco negative: una terribile semplificazione della complessità delle dinamiche storiche e una proliferazione incontrollata del ‘paradigma vittimario’, ossia della corsa ad aggiudicarsi l’ambitissimo ruolo di vittima, con la sua deriva, oramai altrettanto incontrollata, costituita da quello che già da tempo è stato definito “regime memoriale vittimario”, il cui ultimo esempio ‘casalingo’ è la richiesta di una giornata della memoria per le vittime meridionali dell’Unità d’Italia.
Faccio un solo esempio al riguardo, ma credo molto significativo: la repressione, indubbiamente feroce, della Junta argentina, nota Loris Zanatta, “fu tale da oscurare il passato e monopolizzare l’attenzione; da imporre un giudizio morale previo a ogni sforzo di storicizzare gli eventi. Ha prevalso perciò a lungo su di essi lo sguardo del giudice o del moralista, più che la lente dello storico”. Da qui il pantheon vittimario e soprattutto, da qui una narrazione storica che, assolutizzando (e quindi destoricizzando) l’operato dei militari, quasi come se fossero alieni calati improvvisamente da Marte, perdeva di vista quello che sempre Zanatta, a ragione, chiama “il lungo cammino” che aveva condotto al golpe del 1976, un “lungo cammino” a cui tanti avevano contribuito, “anche molti di coloro che ora s’atteggiavano a vittime innocenti, quando non ad eroi di un passato idealizzato”.
Giovanni Damiano