Roma, 9 apr – Sono trascorsi venti anni dall’aprile del 1994, quando un missile terra-aria abbatté l’aereo sul quale viaggiava il presidente ruandese Habyarimana, dando inizio al sanguinoso conflitto tra Hutu e Tutsi. Il Ruanda, un piccolo stato nel ventre dell’Africa, una distesa di colline verdi, vulcani e sorgenti, da una delle quali sgorgano le acque che danno vita al Nilo, divenne in pochi giorni lo scenario di uno dei più cruenti genocidi della nostra epoca. La ferocia dello scontro, combattuto casa per casa e durato circa cento giorni, precipitò il paese africano in un abisso nel quale le differenze etniche e sociali si annullarono e le uniche categorie rimaste a classificare ogni individuo da Kibungo a Kibuye, passando per la capitale Kigali, furono due: i vivi e i morti.
Nel discorso di apertura delle celebrazioni in memoria dell’eccidio l’attuale presidente, Paul Kagame, non ha lesinato accuse esplicite alla Francia, riguardo a un coinvolgimento attivo nell’organizzazione dell’attentato che ha scatenato la guerra civile. Da Parigi non sono giunte repliche ufficiali e addossare l’intera responsabilità del conflitto all’Eliseo appare quantomeno riduttivo, considerando che all’epoca tutto il centro Africa viveva un periodo di instabilità dovuto al termine della guerra fredda e ai nuovi assetti geopolitici. Certo è che, tornando con la mente a quei giorni, il silenzio dei media, dell’Onu (l’ex segretario generale Boutros Boutros Ghali fu anche accusato nel 2000, dal giornale inglese The Guardian, di aver favorito il traffico di armi nella regione per appoggiare gli Hutu) e delle associazioni umanitarie internazionali, su quanto stesse avvenendo in Ruanda, desta ancora forti sospetti sulla reale natura del conflitto. Così come appare certo che una regia esterna, probabilmente occidentale e atlantista, abbia avuto un ruolo fondamentale nell’addestramento all’uso delle armi di una popolazione costituita quasi interamente da allevatori e contadini. I massacri di quei giorni non furono compiuti solo a colpi di machete; nella capitale le due fazioni si affrontarono con mortai, granate e fucili d’assalto Ak47, armi giunte dall’estero e comprate con denaro del quale, ancora oggi, non si conosce la provenienza.
A venti anni di distanza ci sono abbastanza elementi che attestano come il genocidio sia stato preparato, e come affondi le sue radici in un’anomalia di fondo risalente alla colonizzazione belga. L’attuale Ruanda era abitato in origine dalla popolazione dei Twa, diventati minoranza in pochi secoli a causa dell’immigrazione da altre regioni africane di due etnie predominanti, gli Hutu e i Tutsi. Queste popolazioni, pur mantenendo differenze sostanziali, non entrarono in conflitto tra loro, almeno fino ai primi anni del ‘900, quando i belgi decisero di infondere una svolta nell’amministrazione ruandese eliminando, di fatto, il riconoscimento dei Twa e imponendo non solo la distinzione tra Hutu e Tutsi sui documenti d’identità ma anche un’accezione classista che finì con l’identificare i Tutsi come la casta ricca e gli Hutu, la maggioranza, come classe sociale povera.
Questa divisione censoria si alimentò negli anni e nel 1962, anno di nascita della Repubblica, gli Hutu conquistarono il potere, in accordo con gli uscenti colonizzatori belgi. La situazione venutasi a creare portò a un esodo di massa della popolazione Tutsi verso gli stati confinanti; un allontanamento che non fu mai considerato definitivo e che preannunciava il disegno di un ritorno in patria per riconquistare i privilegi e il potere persi. I conflitti tra le due etnie si sono succeduti per oltre due decenni nei Paesi equatoriali, dal Burundi all’Uganda, con sorti alterne, fino all’aprile del 1994 e a quei cento giorni di follia che sconvolsero il Ruanda e che videro concludersi il tentativo di ritorno al potere dei Tutsi con il loro sterminio.
Francesco Pezzuto
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