Nuova Delhi, 11 lug – Malabar 2017 è il nome dell’esercitazione navale congiunta cominciata ieri nelle acque dell’Oceano Indiano che vede 3 protagonisti principali: l’India, gli Stati Uniti ed il Giappone. Inaugurata 23 anni fa solo tra Usa e India ha visto alternarsi anche altri partecipanti nel corso degli anni, soprattutto in anni recenti: nel 2007 parteciparono Singapore, Australia e Giappone e la presenza di quest’ultimo fu ufficializzata formalmente nel 2015.
L’esercitazione ha come scopo l’affinamento della interoperabilità tra le Marine Militari dei Paesi coinvolti in chiave di dominio marittimo, inteso non solo come proiezione di forza e interdizione ai traffici ma anche come cyber warfare e space warfare. Da questo punto di vista quindi si configura come una delle più complete esercitazioni navali e questo lo si evince anche dal fatto che sono coinvolte le “capital ship” delle varie Marine: la USS Nimitz (CVN-68) per gli Usa, la portaerei “Vikramaditya” per l’India (derivata dalla russa Admiral Gorshkov già Baku, classe Kiev), ed il nuovo cacciatorpediniere portaelicotteri tuttoponte (in pratica una piccola portaerei) Izumo, dell’omonima classe affiancate dalle rispettive unità di scorta e da un sottomarino nucleare da attacco classe Los Angeles. L’esercitazione, che durerà una decina di giorni, si articolerà su due fronti: quello vero e proprio in mare comprenderà attività di ricerca antisom, difesa aerea, surface warfare ed esercitazioni VBSS (Visit Board Search and Seizure); quella da terra comprenderà pattugliamenti marittimi, operazioni miste dei carrier strike group, attività EOD (sminamento).
L’esercitazione è funzionale agli schemi di contenimento dell’espansionismo cinese da parte di Washignton, infatti Pechino protestò violentemente già a partire del 2007 per l’inserimento del Giappone nel programma di Malabar, e ancora espresse le proprie perplessità quando gli Stati Uniti decisero di ufficializzarne la partecipazione nel 2015. Del resto non è un mistero quale sia la politica cinese verso i suoi confini, anche e soprattutto marittimi, e l’India, nazione rivale che ha ancora un contenzioso territoriale aperto con la Cina per il plateau di Dokalam nella regione del Sikkim (lo scorso 18 giugno truppe indiane “sconfinarono” in territorio cinese) si inserisce perfettamente in questo quadro nonostante i rapporti altalenanti con gli Usa. Come da copione l’attività navale cinese è andata esponenzialmente aumentando nelle acque dell’Oceano Indiano nel corso dei mesi precedenti Malabar: come riportano fonti indiane più di una dozzina di navi militari inclusi sottomarini, cacciatorpediniere e soprattutto vascelli spia (come il Haiwingxing) sono stati visti con sempre maggior frequenza dalla Marina Indiana negli ultimi due mesi. Per il momento, sempre secondo fonti indiane, Nuova Delhi non è intenzionata ad alimentare le ansie cinesi su di un possibile fronte navale “democratico” che potrebbe risvegliare nell’animo dei vertici militari il “Malacca’s dilemma” sulle sue vitali linee di rifornimento marittime, però “l’incidente” territoriale dello scorso giugno peserà di certo sulla percezione della minaccia da parte di Pechino.
Dall’altra parte della barricata, quella americana, l’esercitazione, insieme a quelle che si sta tenendo nel Mar dei Coralli (Talisam Sabre 2017) che vede partecipare l’altro Carrier Strike Group della Ronald Regan (CVN-76), è perfettamente inquadrabile nel tentativo americano di contenere le mire espansionistiche cinesi verso il Mar Cinese Meridionale, Orientale e del Giappone per conquistare dei bastioni per le proprie forze navali sottomarine e per mettere in sicurezza le proprie linee commerciali (e controllare quelle altrui). L’ingresso del Giappone come membro permanente di questa esercitazione nel 2015 è la riprova del tentativo americano, con l’aiuto dei suoi alleati storici e di nuovi partner, di contenere l’espansionismo cinese nell’area asiatica-estremo orientale: Giappone, India, ma anche Filippine, Australia, Singapore e lo stesso Viet Nam vedono un’espansione della Cina come una minaccia ai propri interessi.
La vera partita per il “nuovo ordine mondiale” si sta giocando in estremo oriente, e vede la penisola coreana come un semplice pretesto per le varie potenze di giustificare e mantenere alto il livello di militarizzazione dell’area. Del resto la perdita della Corea del Nord è una possibilità che Pechino vorrebbe evitare, come già detto, per tenere il più possibile lontani gli americani ed i loro alleati dai propri confini, ma il tutto è funzionale a quanto sta avvenendo nelle calde acque del Mar Cinese Meridionale, che de facto è considerato unilateralmente dalla Cina come un mare interno grazie alle installazioni militari costruite sulle isole Spratly. Gli americani però non stanno a guardare, e nonostante gli accordi commerciali recentemente stretti tra Trump e Xi Jinping la tensione resta alta.
Paolo Mauri
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