Roma, 1 lug – Per gli amanti delle arti marziali e del combattimento in generale è sempre stato un argomento in voga da quando si era ragazzini e si stava approcciando a queste discipline orientali così affascinanti fin dagli anni ’60. Il dilemma era sempre questo: quale era l’arte marziale più efficace e vincente esistente al mondo? Judo, Karate, Jiu Jitsu o Kung Fu? E quale di queste forme di combattimento poteva essere considerata la più micidiale a cui valeva la pena dedicare anni e anni di allenamento? Il dilemma se lo sono posto di recente anche i cinesi, quando il lottatore di Mma Xu Xiaodong, detto Cane Pazzo, ha di recente sminuito le arti marziali tradizionali orientali, suscitando la reazione di Wei Lei, maestro di tai chi. I due si sono incontrati all’inizio di maggio a Chengdu, nella provincia dello Sichuan, e l’incontro è durato sette secondi. Tanti sono bastati a Xu per atterrare e sopraffare l’avversario.
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Le suddette domande sono lecite solo fin quando, in genere una volta raggiunta l’età della maturità umana e sportiva, si riesce a capire che i quesiti sono posti in maniera sbagliata ed il punto di partenza delle valutazioni completamente fuori luogo. Quando si parla di arti marziali orientali si deve partire da una idea completamente diversa rispetto a ciò che pensiamo noi occidentali. La disciplina orientale non mira per forza a mettere al tappeto un avversario e a dimostrare la propria forza fisica e la propria superiorità di fronte a un’altra persona. Lo stesso imprenditore milionario cinese Jack Ma, marzialista convinto, commentando l’incontro di cui sopra ha affermato che le arti marziali non sono per vincere, sono per migliorare lo spirito. Il Tai Chi stesso è un’arte che racchiude forme armoniose di movimenti ritmate da tecniche di respirazione oltre che un modo di combattere.
Eppure la domanda che gli studiosi sportivi si sono sempre posti è sempre stata questa: quali sono le migliori tecniche di combattimento finalizzate a battere un altro atleta mettendolo in condizione di non rialzarsi? Può sembrare una domanda becera figlia della cultura occidentale da cui sono nati gli antichi sport come il pugilato (caestus), la lotta greco romana, il pancrazio. Ad esse era legato anche il discorso della forza fisica e dell’allenamento, della sopportazione del dolore e del confronto fino all’ultimo sangue. Una visione del combattimento molto diversa rispetto alle tradizioni orientali dove, pur esistendo tecniche di contatto fisico e mosse finalizzate all’annientamento dell’avversario, si è prediletta la preparazione psico fisica e mentale. In un ambiente che per secoli è rimasto abbastanza chiuso, il confronto e l’apertura verso altri mondi sconosciuti non si è mai verificato e quindi processi di evoluzione e miglioramento non ci sono mai stati, soprattutto perché la gelosia e l’idea di non contaminazione con tutto ciò lontano dai canoni orientali, l’hanno fatta sempre da padrone.
In tutto questo l’unico uomo che partendo da basi marziali tradizionali ha messo il naso fuori verso l’universo occidentale e che ha provato a far toccare due mondi diversi, contrastanti e incompleti, è stato il grande Bruce Lee. Considerato per tanti sinonimo di purezza e baluardo del Kung Fu tradizionale nella forma del Wu Shu, in realtà Bruce Lee è stato il riformatore per antonomasia, il pioniere di un’arte marziale variegata, il ricercatore di un modo di combattere veramente efficace ed invincibile. Per fare questo ha dovuto toccare ed esportare i segreti della propria arte all’estero nel mondo considerato barbaro dai puristi maestri delle arti marziali orientali i quali osteggiarono da sempre questa sua scelta di sporcare la nobiltà del Kung Fu stravolgendone i principi base. Ma cosa cercava Bruce Lee nelle sue ricerche e nel suo vagare in una società occidentale che a quel tempo di forme da combattimento offriva veramente poco se si esclude lo storico pugilato e la lotta libera, due nobili arti ma limitate all’uso di braccia, la prima, e di proiezioni a terra, la seconda? Cercava l’arte marziale universale, ossia la sintesi delle migliori tecniche che ogni forma diversa di combattimento, orientale e non, rappresentava. E tutto questo accompagnato da una preparazione fisica estrema finalizzata a portare al limite della prestazione il proprio corpo. Bruce Lee fu cavia di sé stesso e i suoi allenamenti erano massacranti, probabilmente anche deleteri e non seguiti da nessuno studio o conoscenza medica specialistica. Non è un caso che in uno di queste sue prove fisiche ebbe un serio strappo alla schiena che lo costrinse a rimanere paralizzato per diversi mesi, e non è escluso che la sua morte prematura sia dovuta proprio ad un allenamento eccessivo accompagnato da un’alimentazione errata che provocò uno stress fisico irreparabile.
Molti affermano che Bruce Lee sia stato il pioniere delle cosiddette arti marziali miste nel senso che, senza saperlo, cercava una completezza e un’efficacia nel combattimento fisico senz’armi che lo avrebbe portato a teorizzare, pur se ancora lontanamente, quello sport conosciuto oggi come MMA. Quest’ultimo è considerato lo sport più completo anche dal punto di vista dell’impatto fisico, non risparmiando nessun colpo portato sempre alla massima potenza. Per molti infatti ogni arte marziale non può prescindere dal duro confronto fisico e non può limitarsi ad un insieme di tecniche e di movimenti. Molte discipline orientali hanno provato ad abbracciare questo tipo di approccio passando ad una versione più sportiva da ring. Pensiamo al Sandà o boxe cinese, evoluzione sportiva del Kung Fu, o al full contact, rappresentazione pugilistica del Karate, da cui è derivata poi la kick boxing.
Per molti ancora però, sia in occidente che in oriente, la vera arte marziale non si deve discostare dagli insegnamenti e dalle modulazioni tradizionali, finendo per trascurare per forza il confronto e l’impatto fisico nudo e crudo, l’unico metodo che farebbe uscire fuori limiti e lacune di un modo di combattere e quindi impedendo anche possibilità di miglioramento. Il rimanere ancorato agli schemi rigidi della tradizione è diventata una scuola di pensiero, ora criticata anche nello stesso oriente come ci ha dimostrato l’incontro tra Wei Lei e Xu Xiaodong. L’evento ha scatenato polemiche ed attacchi feroci tra i sostenitori delle due filosofie sia sul web sia dal vivo facendo finire addirittura in rissa un altro incontro/confronto tra due palestre di tai e di MMA. Solo l’intervento della polizia ha riportato la calma. Episodi come questi non fanno altro che riportare in auge quella famosa domanda da cui siamo partiti e che fa tremare le scuole di arti marziali orientali ancora legate al mito della tradizioni e della ricerca di un equilibrio fisico e mentale attraverso le forme di combattimento. Nulla da togliere a queste oasi di purezza ma, forse, dovremmo chiederci se combattere fisicamente e mettere al tappeto un avversario non siano per caso due cose completamente diverse.
Francesco Amato